Fosse un film o mai decidesse di diventarlo, We Are Who We Are sarebbe uno spot perfetto per le nuove regole inclusive introdotte dagli Oscar. In quasi ogni fotogramma, in qualunque punto della sua storia, ci vuole un solo colpo d’occhio per registrare una varietà di generi, pelli, taglie, lineamenti da appagare i sostenitori della rappresentatività tonda e cesellata. Eppure la prima serie tv di Luca Guadagnino non sembra il prodotto di una pignola operazione di assortimento dei personaggi. Forse perché non si sofferma con pedanteria a mettere in mostra la loro innaturale diversità. We Are Who We Are, piuttosto, è un fluire continuo di figure. Un instancabile entrare e uscire di scena che ricalca l’andirivieni delle onde del mare in cui i suoi ragazzi trascorrono i pomeriggi a tuffarsi.
Tuttavia, qualcuno su cui la miniserie co-prodotta da HBO e Sky Atlantic si sofferma c’è. Si tratta di Fraser e Caitlin (i bravissimi Jack Dylan Grazer e Jordan Kristine Seamón), due quattordicenni americani che vivono con le rispettive famiglie in Italia, all’interno di un’immaginaria base militare a Chioggia.
Lui, ricci ossigenati e unghie giallonere, è appena arrivato da New York e già vorrebbe tornarci. Delle sue due madri, quella naturale, Sarah (Chloë Sevigny), è la nuova comandante della base; ma la sua autorità si sgretola davanti alle volubilità del figlio, che con egual rapidità potrebbe schiaffeggiarla o precipitarsi a succhiarle un dito sanguinante.
Lei, sottilissima sotto una nuvola di capelli neri, nella base abita ormai da qualche anno e con l’italiano ha una timida confidenza. Con suo padre, un soldato afroamericano conservatore, ha un rapporto fisico e simbiotico che invece con la madre di origine nigeriana proprio non riesce a costruire, un po’ come col fratello.
We Are Who We Are segue Fraser e Caitlin mentre pian piano si spìano, si scrutano, si annusano, si conoscono, si capiscono. Non c’è trama. Solo il semplice intrecciarsi dei loro percorsi fatti di istinto, tentoni, conflitti, cadute, reazioni. Tant’è che la scrittura di Guadagnino – sviluppata insieme a Paolo Giordano e Francesca Manieri – quasi non si percepisce, non fosse per il misto di nostalgia e tenerezza che trasuda dalle inquadrature.
Questa miniserie infatti ha a che fare con la fluidità. Al «New York Times» Guadagnino ha detto di non averla creata per trattare temi particolari o cogliere chissà quale spirito del tempo. La sua prospettiva non è tanto interessata a posizionare un pezzo di trama dopo l’altro, quanto a deviare la curiosità sul comportamento dei protagonisti e sull’ambiente in cui vivono.
Ancora una volta – dopo Chiamami col tuo nome – si tratta di un brandello di Stati Uniti incastonato nella provincia italiana, modesta, appiccicaticcia e accogliente. Ancora una volta, sradicati dal loro nucleo sociale, i personaggi si riscoprono una tela bianca su cui tratteggiare la loro vera identità. Nella base di Chioggia le regole sono marziali e i supermercati identici a quelli di qualsiasi altra base americana nel mondo (“Così non ci perdiamo” dice Britney, che in America non ci è nemmeno mai stata). Qui gli adolescenti di We Are Who We Are testano di continuo l’elasticità dei propri limiti senza ragionare troppo sui significati e sulle conseguenze.
Fraser ad esempio veste assai eccentrico, esige alcolici per calmarsi e indugia nell’osservare i corpi di chi lo circonda, siano maschili o femminili. Un po’ come Caitlin, che misura l’attrattività del suo, di corpo, nei confronti di ragazzi e ragazze, in quest’ultimo caso infilandosi in abiti che la facciano credere un uomo.
Gli episodi – almeno i primi – non si fermano mai a specificare quale sia l’orientamento sessuale di Fraser. Come del resto si fatica a comprendere se quella di Caitlin sia pura curiosità o l’esigenza di esplorare una presunta transessualità.
We Are Who We Are non li incastona in categorie, nella stessa maniera in cui sceglie di sorvolare su tutte le altre etichette fisiche, morali, psicologiche, politiche. (La storia è ambientata nel 2016, ci sono scorci dei comizi di Trump, e il padre di Caitlin riceve per posta i cappellini rossi di “Make America Great Again”, eppure non ci sono grandi scontri di ideali.)
In questo senso la serie spiazza abbastanza. Nei suoi personaggi c’è un po’ di Elio e anche un po’ di Rue – i rispettivi protagonisti di Chiamami col tuo nome e Euphoria – oltre a molto altro degli adolescenti attraverso cui cinema e tv vogliono parlare di diversità. Come loro si muovono per il mondo a scatti, curiosi, paurosi, sciatti, sudati, spettinati e spesso disorientati. A differenza loro, però, qui non incappano in drammi esistenziali e nemmeno in esagerate provocazioni destinate a scioccare il pubblico adulto. Tutto passa, tutto fluisce. I particolari più rilevanti non sono indizi sui futuri sviluppi narrativi, bensì più semplici avvisaglie delle emozioni del momento, dalle quali i personaggi si isolano spingendo le cuffiette nelle orecchie.
Quando Guadagnino tentò di girare il suo primo film, ha raccontato, era ancora un bambino cinefilo e molto smanioso di usare la sua nuova telecamera. L’idea era un omaggio a Dario Argento. Prese un pezzo di carne, lo immerse in un bicchiere pieno d’acqua e si ripropose di filmare cosa sarebbe successo. Quel film non lo finì mai: sua madre buttò via la carne imputridita. In quel bicchiere c’era però già il principio di We Are Who We Are: radunare una manciata di attori, dargli personaggi complessi, lasciarli piuttosto liberi di seguire i propri istinti e seguirli con una cinepresa. Guadagnino non ha dovuto raccontare la diversità. Semplicemente l’ha osservata.