Carmelo Bene (CB – come egli stesso amava ridursi, annullarsi, spersonalizzarsi) è un teatro che non è mai nato, una cultura che non è mai vissuta (accidenti).
Il principe Amleto ne ha tante sul cuore che non starebbero in cinque atti né in tutta la nostra filosofia che regge il cielo e la terra.
(Jules Laforgue, Amleto, ovvero le conseguenze della pietà filiale)
La più grande macchina teatrale del Novecento
Egli fu un’esalazione volatile e letale. Non fece mai scuola e a scuola non andò mai, un “classico”, eterno e senza tempo, che non seguì predecessori e non lasciò cadetti. Colui che è un italiano tra i Dante, i Leopardi e i Leonardo, che quasi banalmente è riconoscibile come la più grande macchina teatrale del Novecento. E’ irriducibile ad ogni tentativo di classificazione, scolarizzazione e razionalizzazione stilistica – la sua non è letteratura, metafisica, poesia, ma in fondo neanche teatro. La sua rivoluzione non è figlia di nessuno, e nemmeno dà i natali a qualcosa di altro.
“Esteticamente”, Carmelo Bene è uno dei pochi geni per i quali sia passata quella Parola prima delle parole in cui Artaud riponeva le sue speranze per un teatro della crudeltà. Una “scena” di intensità ontologica e creatrice che, negando visceralmente l’ordinario, la storia, il costume, l’esibizione, l’apparenza e ogni “ragionevole” forma di vita presente – e quindi negando ogni positività moderna – afferma la vita e le sue infinite (e indefinibili) potenze.
Come l’Amleto di Shakespeare
“Culturalmente”, Carmelo Bene è un anti-monumento nazionale, il vilipendio ambulante, un anti-eroe anti-umanitario che dice ciò che tuttavia, nell’inafferrabilità di una Realtà lacaniana, ciascuno di noi è. Esattamente come l’Amleto di Shakespeare: l’uomo moderno per eccellenza solo in quanto anti-moderno.
La frequentazione della figura di Amleto da parte di CB ha preso corpo, lungo tutta la carriera dell’attore (vedremo di seguito perché questa espressione risulta assolutamente inappropriata), in sette rappresentazioni (anche qui, vale lo stesso) teatrali, televisive o cinematografiche.
In opere come Amleto o le conseguenze della pietà filiale (1967), Un Amleto di meno (1974) o Hommelette for Hamlet (1987), il principe danese non viene evocato (non di certo “impersonato”) solo a partire dall’opera tradizionale di Shakespeare, ma in particolar modo dalla grottesca e dissacrante rivisitazione di Jules Laforgue, che ha dedicato alla vicenda di Amleto alcune delle pagine più alte delle sue Moralità leggendarie (1887).
Il superamento del teatro
Così da giustificare tutte le parentesi dello scorso paragrafo, ma soprattutto per render conto del modo in cui Carmelo Bene, pur assumendone scenicamente il nome e sublimandone lo spirito, riesca a non “recitare” mai il “ruolo” di Amleto o di altre dramatis personae, è necessario riflettere sulla prassi di destituzione del dramma, dell’attore, della storia, del testo, della struttura e del discorso. Attraverso l’impiego della “macchina attoriale”, quell’”idea”/”pratica”/”stile” che rende il teatro di Bene un inaudito e insindacabile superamento del teatro.
Klossowski, in un saggio dedicato a CB, osserva come questi non si dedichi al tradizionale “lavoro mimico”, quello di coloro che più propriamente chiamiamo “attori”, i quali si impegnano ad imitare, somigliare ai personaggi drammaturgici.
Un essere umano vivo accoglie nel suo corpo e nei suoi atteggiamenti il destino già scritto di un morto. Le vicende e i destini ben noti di Amleto, Edipo, Giulio Cesare o Tamerlano si ripetono scleroticamente ed ossessivamente nelle recite degli attori, come fossero statue sempre identiche a loro stesse e condannate ad un eterno e distaccato riconoscimento da parte del pubblico. Pubblico che è così in grado di esclamare “eh già, è proprio così che è andata”, “eh già, è proprio bravo questo Amleto, soprattutto in quella famosa scena in cui…”.
Sul terreno delle identità discontinue
Carmelo Bene opera invece sul terreno delle “identità discontinue”, secondo Klossowski.
Egli si rifiuta di ridursi a passivo e manieristico contenitore della “solita, vecchia storia” di Amleto o di Otello, ed è piuttosto in grado di intercettare “l’imprevedibile che il personaggio porta in sé“, “ciò che non può dire né sapere“. Esistono delle “identità virtuali nello stesso personaggio“, che non si esprimono nel ben noto destino già descritto dal drammaturgo, ma piuttosto in quelle “patofanie”, sprazzi di aura e creazione, dispersi nel non-scritto del genio di Shakespeare o di altri, che CB utilizza per “ri-improvvisare” la vicenda, gli affetti e la natura di un demonico, mai-esaurito e sempre aperto personaggio.
Tutto ciò significa l’unica possibile via per “rivivere” autenticamente la tragedia di Amleto o Achille, privandola della polverosa monotonia del già visto, della sua distanza storica e della feticizzazione arcaizzante e dis-attualizzante della sua grandezza.
Disarmare il teatro
Laddove Benjamin si chiede come sarebbe stato possibile apprezzare la Gioconda dal vivo dopo averla vista infinite volte in cartolina, Carmelo risponderebbe che non basta semplicemente cambiarle location o apporre dei baffi avanguardistici alla povera Monna Lisa. Bisogna ritagliare in pezzettini la tela, strapparla dalla cornice e vedere cosa farne, di quegli occhi penetranti e di quelle mani delicate.
Secondo Deleuze, questo significa disarmare il teatro dai suoi strumenti di “Potere” (l’attore, il testo, la struttura, etc.) “sottraendo” alla rappresentazione i suoi elementi dottrinali, consueti e gerarchici, e restituendo Shakespeare al perenne movimento, alla “Variazione” senza inizi e senza approdi, in cui della figura di Amleto non restano che sprazzi caotici, ma di un’autenticità più vera della ripetitiva ripresentazione della stessa, immobile linearità, identità. Usando le complesse parole di CB:
demolizione della finzione scenica = dalla identità immedesimata o delazione epica “straniata” del simil-attore re-citante che, nella ottusità del ruolo, si preclude l’infinità dei doppi, all’arredamento della regia critica come rovello della messinpiega.
In una famosa conferenza, Carmelo sbotta: «non capisco perché bisogna fingere a teatro, non l’ho mai capito».
Disarticolare il discorso scritto
Il tutto alla presenza di Vittorio Gassman, il massimo candidato di quel teatro della simulazione, della “menzogna”, del ruolo che Bene riduce al “trucco” e ai “parrucconi”. Il teatro beniano “disarticola” il discorso scritto (lo scritto è la morte dell’orale, della vita, della phoné), “toglie di scena” e fa sì che non sia mai la macchina-attoriale-Bene a “proferire”, ad indottrinare, poiché essa, in quanto macchina (non-attore, non-regista, non-scrittore… non-uomo), rinuncia all’imposizione di un “io” rappresentante e rinunci alla stessa appercezione: sul palco prende atto una crudele indeterminatezza, le caotiche e imprecise variazioni di un’oscurità semantica – parole, gesti, versi, suoni, musica, carne, costumi invorticati in un ciclone che distrugge ogni possibile semantica.
Solo dopo potremo vedere in che modo questa apparente anarchia riesca ad intercettare La pura bellezza ed un’autenticità quasi “teologica” (“In teologia si danno solo domande“, come ripeteva CB a chi lo interrogava per ricevere risposte).
«Il discorso non apparterrà mai all’essere parlante»
“Il discorso non apparterrà mai all’essere parlante”, come ripeteva spesso, sulla scorta di Lacan e di chi sapeva che è l’umano ad essere immerso nel logos, e non viceversa, giacché non potrebbe mai uscirne. CB non parla, ma è parlato. Dagli infiniti, vagabondi e incoerenti Amleto che schizzano via, demoniaci e pieni di potenzialità, dall’opera di Shakespeare e Laforgue ma anche dal sapere popolare, dall’iconologia affermata e dagli infiniti accessi che il mondo del “classico”, dell’”eterno” utilizza per invadere il nostro presente cronistorico, anagrafico.
Egli è poeta nel senso in cui lo erano Omero ed Esiodo (ma anche il genio kantiano). Carcasse vuote che vengono occasionalmente riempite dalle Muse al fine di cantare la verità divina, dell’archè. È per questo che “il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può” (CB, Autografia di un ritratto).
È tutta questa meccanicizzazione, depersonalizzazione, “operazionalizzazione”, per dirla con Deleuze, che porta alla perdita della stessa compostezza corporea e comportamentale. La scena di Bene è caratterizzata dal tic, dal balbettio, dalla gesticolazione spezzata, dalla nevrastenia, dall’interruzione, dalle urla seguite da sussurri, dalle voci sovrapposte, dalle voci in play-back, dal mugugno, dal delirio.
La phoné
Qui si entra nello sterminato territorio della “phoné”, dove in fondo siamo sempre stati. Indefinibile, profondissima e dinamica idea che meglio di ogni altra caratterizza il teatro di CB. Come osserva Maurizio Grande, Bene rinuncia ad un linguaggio del “riconoscimento” ed approda nell’”invocazione”. Poiché egli non cerca di riferire, non essendo egli un medium.
La voce di Bene non è mai individuale, non è mai “sua”, ed egli non riferisce mai un (già) “detto”, uno “scritto”. Anche i grandi poeti italiani, come Dante e Leopardi, secondo Bene, hanno composto qualcosa di più simile agli spartiti musicali, che solo secondariamente si sono riempiti di trame, personaggi e significati. La phoné è il “de-genere” originario, il Grande Altro che attenta al potere dei significati e dei loro araldi, attentando originariamente all’io.
Umberto Artioli
Le parole di Umberto Artioli risultano le più adeguate:
C.B. scavalca la stessa phoné. Di fronte alla musicalizzazione della parola che, divenendo suono organizzato, rischia di acquisire una forma, ricompare la sua ritrosia nei confronti del Limite.
C.B. avverte che anche la musica, la più asemantica delle arti, appartiene all’orizzonte della dicibilità. Perciò ne dice l’insufficienza e aspira a un suono che oltrepassi i suoni pronunciati.
[…]
Punto d’oblio, in cui si eccede il finito per donarsi all’increato. Confrontarsi col teatro di Bene è far vibrare la soglia in cui la vocalità forza la propria sonorità limitata, cercando il transito verso l’altrove.
C. Bene, Opere. Con l’autografia di un ritratto, Classici Bompiani, Milano, 2013 (ed. digitale)
C. Bene, Otello o la deficienza della donna, Feltrinelli, Milano, 1981
J. Laforgue, Moralità leggendarie, Garzanti, Milano, 2008
C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata, 2002