Venezuela: tra socialismo, petrolio e diritti umani

Tira un’aria strana in Sudamerica, specialmente nei due Paesi “socialisti”: Venezuela e Bolivia. Entrambi terranno a breve le elezioni presidenziali, rispettivamente il 6 dicembre e il 18 ottobre. Se della Bolivia e del colpo di Stato passato sotto silenzio abbiamo già parlato su «Lo Sbuffo», ora conviene dare uno sguardo la situazione in Venezuela.

Il Venezuela ha sempre rappresentato, insieme a Cuba, la bestia nera degli Usa in Latino America. Ovviamente, essere fuori dalle grazie degli Usa significa essere osteggiato dai suoi alleati. Si spiega infatti solo in questo modo il congelamento delle riserve d’oro venezuelane in giacenza presso la Bank of England. Se un comportamento del genere, per giunta validato dalla Corte Suprema Britannica, avesse colpito un Paese occidentale o un loro alleato, si sarebbero sollevate tremende voci di protesta da parte di tutti i governi europei e nordamericani.

Del resto, tutti piangono la miseria dei cittadini venezuelani e iraniani costretti a emigrare all’estero in massa. Tuttavia, nessuno batte ciglio quando gli Usa annunciano nuove sanzioni che, come noto, prima di colpire i regimi, colpiscono le persone. Indubbiamente, le sanzioni non possono essere usate come capro espiatorio per tutti i problemi del Venezuela, come fa invece Maduro, ma sicuramente giocano un ruolo importante.

Curioso è stato poi quel goffo tentativo di rovesciare Maduro, organizzato da alcuni cittadini americani legati all’azienda di sicurezza privata Silvercop e da militari venezuelani ammutinati. Immediata la reazione del Presidente Venezuelano che non ha esitato ad incolpare i governi statunitense e colombiano di tramare contro di lui. Il Dipartimento di Stato Usa e il governo Colombiano hanno tuttavia smentito seccamente le accuse. Si tratta del secondo tentativo di golpe in Venezuela nel XI secolo dopo quello fallito ai danni di Chávez nel 2002.

Economia e petrolio

Sede della PDVSA

Dal 2014 il Venezuela soffre una crisi fortissima legata a diversi fattori. La causa principale è il petrolio che porta con sé enormi ricchezze ma anche conseguenze devastanti. Sebbene sia il Paese con le riserve più grandi di oro nero al mondo, il Venezuela non riesce più ad esportarlo. Infatti, le sanzioni Usa limitano fortemente il numero degli acquirenti, tra cui gli stessi Usa che rappresentavano il maggiore importatore. Il petrolio viene inoltre estratto solo dall’azienda nazionalizzata PDVSA. Si tratta quindi di un monopolio di Stato che, come ha insegnato l’Unione Sovietica, porta solitamente a grande corruzione e quindi perdita di utili. Non a caso la PDVSA è considerata tra le aziende energetiche più corrotte al mondo.

Gli strascichi di un’economia debole, poco diversificata e che non può più contare sul solo petrolio, ha messo in crisi il sistema ideato da Chavez. Infatti, già due anni dopo la morte del leader socialista, l’inflazione (aumento dei prezzi e diminuzione del potere d’acquisto) iniziava la sua inesorabile salita. Ad oggi, il tasso è arrivato a livelli parossistici che mettono in ridicolo quelli della Repubblica di Weimar negli anni ’20 del ‘900. Gli ultimi dati mostrano come l’inflazione si attesti ora intorno al 2300%, nulla rispetto al 350000% del febbraio 2019. Quest’ultimo dato è infatti stato immediata conseguenza delle sanzioni Usa, entrate in vigore nel 25 gennaio 2019.

Lo scenario politico

Dal 2012, il Presidente del Venezuela è Nicolas Maduro, successore di Hugo Chávez. Per sua sfortuna, l’attuale Presidente ha ritrovato tutte le grane del suo predecessore, senza però i vantaggi (riforme sociali e welfare per tutti) che hanno garantito la popolarità a Chávez. Che il problema sia l’imperialismo americano, l’incapacità di Maduro o la corruzione endemica, poco importa ai venezuelani affamati e pronti a fuggire dal proprio Paese.

Tornando al presente, il Venezuela si trova in una situazione di stallo che le elezioni di fine anno non saranno probabilmente in grado di risolvere. L’opposizione, che è la fa da padrona sulla stampa (occidentale) al di fuori del Venezuela, ha deciso che non parteciperà alla tornata elettorale del 6/12, considerata una farsa. La figura di Guaidò, riconosciuto da molti Paesi occidentali come legittimo presidente, ha perso però il suo fascino iniziale e il suo ruolo centrale nell’opposizione venezuelana. Certamente non lo hanno aiutato in questo le foto insieme a noti narcotrafficanti colombiani e l’accusa di aver ricevuto informazioni sul tentativo di golpe.

Maduro si rifiuta invece di cedere alle pressioni internazionali, specialmente quelle occidentali, che vorrebbero vederlo deposto (Cina,Russia e Turchia invece lo supportano). Per cercare di riguadagnare consenso ha invece deciso di concedere il perdono presidenziale a centodieci prigionieri tra cui alcuni politici dell’opposizione.

Infine, conviene riportare il diplomatico intervento del Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che nel suo tour in tre Paesi sudamericani confinanti col Venezuela si è speso direttamente contro Maduro, invitando a scacciarlo. È quasi inutile sottolineare come la politica estera americana sia da sempre caratterizzata da due pesi e due misure, senza un vero interesse per il benessere delle persone e i diritti umani. Gli unici governi contro i quali si sono spesi sono infatti quello boliviano (in maniera più defilata) e quello venezuelano.

Il report

Negli ultimi giorni è caduta però una bomba che potrebbe fare molto male a Maduro. Si tratta del rapporto ONU sulla situazione dei diritti umani nella Repubblica Bolivariana del Venezuela dal 2014 ad oggi. Un report di quattrocento pagine, con episodi dettagliati e testimonianze delle vittime. La Missione 42/25, durata un anno, ha ricevuto il via libera il 27 settembre 2019 in seguito al voto del Consiglio, presieduto da quarantasette nazioni.

Le accuse mosse dalla Missione si articolano lungo tre linee principali. La prima è quella dell’utilizzo della violenza nei confronti dei membri dell’opposizione, o comunque dei critici del governo Maduro. Violenza che ha preso negli anni diverse forme tra cui arresti immotivati, prolungamento della custodia cautelare oltre i termini legali e addirittura torture. Il sistema, ben rodato, prevede anche la collaborazione dei servizi di intelligence SEBIN e DGCIM e di un sistema giudiziario al servizio del potere centrale. I pochi giudici che si oppongono vengono sostituiti e questo favorisce un clima di corruzione e omertà.

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Sotto la lente della Missione sono finite anche le due task force contro la criminalità: la OLP e la OLHP (la sua versione aggiornata). In teoria, queste due operazioni dovrebbero eradicare la criminalità organizzata, spesso legata al narcotraffico. Il report dell’ONU tuttavia mostra una realtà differente fatta di omicidi su commissione o arbitrari. La strategia d’azione è sempre la stessa: l’operazione ha inizio al mattino presto quando le strade (perlopiù in zone povere) vengono bloccate. Successivamente, un gran numero di uomini armati si introduce nel quartiere, dando inizio ad esecuzioni extragiudiziarie e arresti senza mandato di cattura.

Altra pesante accusa contenuta nel rapporto è quella di impedire il corretto svolgimento di manifestazioni contro il governo. È infatti estremamente difficile ottenere il permesso per tenere una manifestazione; le proteste non autorizzate vengono ritenute illegali e perseguibili. Questo nonostante il Venezuela sia uno dei firmatari dell’ICCPR (Convenzione internazionale sui diritti civili e politici) che afferma il diritto a manifestare pacificamente senza alcuna autorizzazione.

La replica del governo venezuelano

Il governo venezuelano si è mosso subito per smentire le accuse tramite il Ministro degli Esteri Jorge Arreaza. Sulla sua pagina è infatti apparso un tweet al veleno contro le Nazioni Unite e in particolare il reporto finale della missione, definito falso e tendenzioso. Il tutto, secondo le fonti ufficiali di governo, è una semplice conseguenza dell’aperta ostilità americana verso il regime politico attuale.

Maduro ha definito “politicizzati” la Missione e il rapporto finale che, a suo parere, avevano il solo scopo di dare un’immagine negativa del Venezuela. Inoltre, le autorità venezuelane hanno criticato la metodologia adottata: principalmente interviste svolte al di fuori del territorio nazionale. Infatti, sia per l’opposizione del governo sia per la pandemia in atto, la Missione non ha avuto molte possibilità di recarsi in prima persona nel Paese sudamericano.

Tutto ciò ricorda molto il rapporto della Missione 41/18 del 2019, con accuse simili e simili modalità di difesa. Tra i dati portati in difesa del proprio Paese, Maduro aveva mostrato come l’82% delle interviste fossero state condotte all’estero. Inoltre, il governo venezuelano aveva lamentato la tendenza della Missione ad ignorare le fonti ufficiali, favorendogli quelle dell’opposizione. Non è infatti la prima volta, a parere delle autorità locali, che la Comunità Internazionale ricorre ad un uso strumentale dei diritti umani per indebolire la posizione del presidente Maduro.

Il caso Barlovento

Tra i vari esempi presentati dalla Missione nel rapporto dettagliato, c’è quello del caso di Barlovento. Barlovento è una sub-regione all’interno dello Stato di Miranda, il cui governatore all’epoca dei fatti era Henrique Capriles Radonski, capo dell’opposizione. In quest’area, invasa dalla criminalità organizzata che vuole controllare la produzione di cacao, si è svolta nell’ottobre 2016 una delle già citate OLP (Operazioni per la libertà del popolo).

In seguito a rapimenti e omicidi di militari della Guardia Nazionale Bolivariana, tra cui un generale, il governo ha attivato un’operazione volta a smantellare le potenti gang del territorio. Il 7 ottobre 2016, 1299 soldati di quindici unità sono stati dispiegati su metà del territorio dello Stato di Miranda come parte del Piano Rondon. Le truppe, dislocate in due località diverse, hanno dato avvio ad una serie di operazioni per una durata di circa dieci giorni. Pare che l’ordine di iniziare le operazioni fosse arrivato direttamente da Maduro, tramite il Ministro degli Interni e quello della Difesa.

Tra il 13 e il 18 ottobre del 2016 sono stati detenuti trentacinque uomini. Dodici di questi sono stati poi ritrovati morti tra il 25 e il 26 novembre in seguito ad un’inchiesta giudiziaria. Altri otto invece sono stati rilasciati mentre uno è riuscito ad evadere. Degli altri nove la Missione non ha invece avuto alcuna notizia. Tutti quanti i superstiti hanno dichiarato di aver subito torture. Alcuni hanno parlato di elettroshock, altri di ferite con oggetti affilati e colpi con il calcio del fucile. Altri ancora hanno invece affermato di essere stati denudati e appesi per le braccia per poi essere interrogati. Al momento del rilascio sembra inoltre che siano stati obbligati a firmare un documento in cui dichiaravano di essere stati trattati nel migliore dei modi.

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