Nel pieno della pandemia da COVID-19, mentre nel mondo si misuravano i danni economici e sociali provocati dal virus, nella regione dello Xinjiang, in Cina, si perpetuava l’ennesimo attacco ai diritti umani degli Uiguri.
Chi sono gli Uiguri
Gli Uiguri sono una minoranza etnica turcofona di religione islamica presente nel nord-ovest della Cina, soprattutto nella regione autonoma dello Xinjiang. La popolazione uigura ha attirato più volte l’attenzione dei media. Sono ormai note, infatti, le campagne persecutorie e discriminatorie che il Governo cinese porta avanti nei suoi confronti da decenni.
L’odio razziale nei confronti degli Uiguri trova le sue radici nel periodo immediatamente successivo lo scioglimento dell’URSS. Con l’istituzione delle repubbliche indipendenti di Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan lungo i confini della regione dello Xinjiang, si creò coesione tra la popolazione uigura presente in Cina e negli Stati limitrofi appena sorti. Questo bastò a fare da impulso a pretese indipendentiste preoccupanti per Pechino.
La persecuzione vera e propria, però, comincia dopo i fatti dell’11 settembre e l’inizio di quella che possiamo chiamare “guerra globale al terrorismo”. Da lì in poi, infatti, le autorità centrali catalogano ufficialmente gli Uiguri come terroristi e danno vita ad una violenta repressione.
Nel 2014 spuntano le prime indiscrezioni relative a quelli che il governo di Pechino chiama “centri d’istruzione vocazionale e di addestramento al lavoro”. In realtà, questi centri si scopriranno essere veri e proprio campi di internamento. All’interno di questi centri i prigionieri subiscono sistematicamente privazioni dei diritti umani e un indottrinamento per eliminare qualsiasi traccia della loro appartenenza alla fede musulmana. Per non parlare poi della campagna di sterilizzazione che le autorità portano avanti nei confronti delle donne Uigure. Le abitanti dello Xinjiang sono spesso costrette a test di gravidanza indesiderati, assunzione obbligatoria di anticoncezionali e aborti. Soltanto nel 2019 il tasso di natalità è diminuito del 24%.
Cosa c’entra il coronavirus con gli uiguri?
Mentre la Cina cercava di mostrarsi compatta e autorevole agli occhi del mondo, tramite operazioni di solidarietà nei confronti dei paesi più colpiti dal virus, Italia compresa; nella remota regione dello Xinjiang il virus rappresentava un pretesto per giustificare gravi persecuzioni nei confronti degli Uiguri.
La diffusione del virus nei campi
Agli inizi di febbraio, in piena emergenza sanitaria, il World Uyghur Congress aveva espresso molta preoccupazione per la situazione nei campi di detenzione. Stando alla stima effettuata da Adrian Zenz, un ricercatore tedesco, gli uiguri attualmente detenuti sono circa 1,5 milioni. Se si considera che nei campi ogni detenuto vive a stretto contatto con gli altri, appare subito chiara l’entità del problema. Oltretutto, secondo la testimonianza di una donna uigura intervistata dal Time, le uniche “misure di sicurezza” adottate nelle prigioni somigliano più a strumenti di tortura. La donna ha raccontato di essere stata spogliata e sottoposta a docce di disinfettante che le hanno letteralmente bruciato la pelle. Oltre alla gravità del trattamento subito dalle detenute uigure, c’è anche da considerare che queste metodologie non hanno nessun riscontro scientifico circa la loro efficacia contro il virus.
Ad oggi non è possibile sapere con esattezza i numeri dei contagi e dei decessi nei campi di internamento. Il governo cinese ha reso pressoché impossibile qualsiasi comunicazione tra detenuti ed esterni ed è molto probabile che i numeri forniti dalle autorità siano falsi.
Obbligo di assumere “medicinali tradizionali”
Lavoro forzato per produrre mascherine
Come già accennato, dopo l’accusa di aver taciuto il virus e di aver fornito dati falsi, la Cina ha cercato di rimediare al danno di immagine subito. Come? inviando ai Paesi più in difficoltà, il nostro compreso, dispositivi di sicurezza tra cui mascherine made in Xinjiang.
Sono moltissimi gli uiguri che negli ultimi anni sono stati impiegati nelle filiere produttive di aziende cinesi. Tutto ciò farebbe parte di un programma di inserimento lavorativo che il governo di Xi JingPing pubblicizza come “lotta alla povertà”. Mentre Pechino assicura che il lavoro degli Uiguri sia su base volontaria, diverse ONG denunciano il contrario. Amy K. Lehr, che si occupa di Diritti Umani al Center for Strategic and International Studies, parla di lavoro forzato. Secondo la Lehr, il Governo stabilisce le quote di lavoratori da impiegare nelle filiere e in base a quelle, obbliga gli abitanti a lavorare contro la loro volontà. Chi si rifiuta subisce una punizione e rischia l’internamento nei campi di detenzione.
Attualmente, nello Xinjiang ci sono cinquantuno produttori di materiale sanitario. Tra questi, almeno diciassette aderiscono al programma di reinserimento lavorativo del Governo. Questo significa che diciassette aziende utilizzano il lavoro forzato degli abitanti per produrre le mascherine poi distribuite in tutto il mondo.
Minoranze islamiche in Asia
La questione Uigura in Cina, va detto, non esaurisce la situazione delle minoranze islamiche in Asia. Negli anni sono diverse le persecuzioni subite da gruppi etnici di religione musulmana in diversi Stati dell’Asia. Recentemente ne ha parlato l’ISPI. In Myammar, per esempio, tra il 2016 e il 2017 si è consumato un vero e proprio genocidio della popolazione Rohingya per il quale è in corso un processo davanti alla Corte internazionale di Giustizia. In india, invece, il Governo di Nuova Delhi porta avanti da anni una campagna discriminatoria e persecutoria nei confronti dei Kashmiri.
La posizione della società civile
Una forte presa di posizione nei confronti della questione uigura arriva dalla società civile. Da qualche giorno tra le tendenze di Twitter è comparso l’hashtag #BoycottMulan. A ridosso dell’uscita di Mulan, il nuovo film targato Walt Disney, non è passato inosservato un dettaglio che ha acceso una vera e propria protesta virtuale. Alcune scene del film, infatti, sono state girate in Xinjiang sotto il rigido controllo delle autorità locali. Le stesse autorità locali che appaiono nei titoli di coda tra i ringraziamenti. È da tempo che la Walt Disney cerca di entrare nelle grazie del governo cinese, per assicurarsi una fetta di mercato. E infatti, quello che viene recriminato all’azienda statunitense è proprio la capacità di chiudere un occhio sulla persecuzione degli Uiguri in virtù di interessi economici.
La questione uigura resta quindi una delle più violente repressioni su base etnica del nostro secolo. La pandemia è stata un’occasione per il governo di Pechino di inasprire le azioni discriminatorie contro questa minoranza. La Comunità Internazionale, nel 2019, ha finalmente condannato apertamente le azioni del governo cinese, ma non è sufficiente. Tocca auspicarsi che anche le grandi società che muovono il mercato mondiale cessino di assecondare, anche indirettamente, il partito comunista cinese.