Un nuovo tipo di discriminazione ha fatto capolino sul nostro scenario sociale: il mask shaming, l’indurre volontariamente vergogna in chi sceglie di continuare a indossare una mascherina in luoghi pubblici. In realtà il fenomeno è partito nell’altra direzione: quando restare confinati in casa era la normalità, e uscire e camminare tra nostri simili era l’evento straordinario, da compiersi con le adeguate misure di precauzione, fare mask shaming significava rimproverare chi osava presentarsi in pubblico a volto scoperto.
La scorsa primavera ha circolato su Twitter un video in cui si vede una donna scortata di forza fuori da un supermercato di Staten Island, New York, perché non indossava una mascherina: il tutto si svolge mentre altri clienti le gridano dietro di vergognarsi, di andarsene. Nello stesso periodo, noi in Italia eravamo all’inizio del deconfinamento, e il Tg denunciava ogni sera comportamenti irresponsabili in varie città – il caso più memorabile è stato quello di Bergamo, dove il trauma dei carri funebri non è bastato a evitare assembramenti senza mascherine.
Il dibattito sulla mascherina è stato un compagno costante della pandemia, alimentato da notizie discordanti fornire dai governi e anche da organizzazioni super partes tra cui, soprattutto, l’OMS: mascherine a un prezzo eccessivo, vendute all’asta su Ebay, mascherine introvabili nelle farmacie, mascherine mancanti negli ospedali, mascherine obbligatorie ovunque, poi solo nei posti chiusi, poi solo se unite a distanziamento tra persone. Di tutto e di più è stato detto a riguardo. La certezza era che sarebbe stato difficile insegnare la convivenza quotidiana con la mascherina a popoli che ne erano del tutto estranei: più facile, forse, ne è stata l’adozione in Paesi asiatici in cui il concetto non è nuovo. All’inizio, comunque, nessuno sembrava trasgredire. Come si è arrivati, dunque, dall’additare chi esce senza mascherina, mettendo a rischio gli altri oltre che se stesso, a fenomeni di aggressione su chi continua a utilizzare la mascherina anche dopo la fine dell’obbligo?
La causa potrebbe essere un cambio di ricezione dell’elemento mascherina nella psicologia collettiva: indossarla può essere recepito come un atto di cortesia nei confronti degli altri, o al contrario come un atteggiamento arrogante di difesa personale, di riparo dai concittadini “untori”. Altri psicologi, invece, indicano come possibile origine del mask shaming l’omologazione che gli umani applicano per orientarsi nel mondo: vale a dire, se non so decidermi sull’indossare o meno la mascherina in un centro commerciale, mi rivolgerò agli altri per osservarne il comportamento, e adotterò quello più largamente diffuso e, dunque, più socialmente integrato. Se questo comportamento era, fino a qualche tempo fa, l’indossare la mascherina (e magari i guanti, e magari avere l’Amuchina a portata di mano), ora la tendenza emergente è l’esserne privi, e comportarsi come se il virus fosse scomparso. Quest’opzione appare così attraente che quanti scelgono di non aderirvi sono degli strambi, degli ipocondriaci, dei presuntuosi.
Ma il fenomeno potrebbe rispondere a un imperativo più universale nel genere umano. L’epidemiologa Julia Marcus, in un articolo sul The Atlantic ha tracciato un parallelo con il primo periodo dell’epidemia di AIDS, negli anni Ottanta, quando le campagne pubblicitarie che incoraggiavano alla precauzione avevano il un sapore moralizzante e ottenevano solo effetto di sollevare reazioni di ribellione.
In ogni caso, il fenomeno del mask shaming, come quello del fat shaming e ogni altra forma di discriminazione, ha il solo obiettivo di mettere a disagio l’altro, farlo sentire estraneo: tuttavia, il fatto che sia applicato a qualcosa di così poco invasivo eppure tanto fondamentale come una mascherina in tempi di pandemia, fa perdere un po’ di fiducia nell’uomo. Inoltre, il fenomeno dello mask shaming mostra quanto rapidamente nuovi comportamenti possono passare dalla rarità alla normalità, e quali rischi colossali possono portare con sé.