All’inizio del 2017 una coppia di registi chiese alla ICE, l’agenzia federale statunitense responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, il permesso di seguire e filmare il dietro le quinte del suo operato. La risposta fu inaspettatamente positiva: Trump si era insediato da pochi giorni come presidente, e il progetto sarebbe stato un’ottima occasione per mostrare l’evolversi della sua promessa elettorale di inasprire le norme sull’immigrazione. Il materiale raccolto ha dato vita alla docuserie Immigration Nation. Ma con l’avvicinarsi della sua uscita l’amministrazione Trump ha cercato in maniera piuttosto aggressiva di ostacolarne il rilascio.
Dopo lunghe trattative tra gli avvocati di entrambe le parti, Immigration Nation è riuscita ad arrivare puntuale sul teleschermo. La si trova su Netflix, e racconta in maniera piuttosto inedita come la gestione dell’immigrazione sia mutata negli ultimi tre anni, coprendo quindi l’intero mandato di Donald Trump. Non solo la serie si addentra nella realtà dei centri di detenzione statunitensi; ma prima d’ora nessun giornalista o documentarista aveva mai avuto l’autorizzazione a interagire con il personale e con i detenuti.
Muovendosi da una panoramica generale alle singole storie personali, i sei episodi raccontano il lavoro dei funzionari della ICE e seguono il percorso tortuoso di alcuni migranti nella macchina complessa dell’immigrazione. Tuttavia l’accesso a parti del sistema che spesso restano oscure – almeno visivamente – all’opinione pubblica ne ha messo in luce anche gli aspetti più controversi, le contraddizioni e soprattutto un’abitudine abbastanza diffusa all’abuso fisico e psicologico nei confronti dei migranti.
Le pressioni da parte del governo federale
Una delle scene oggetto di contestazione da parte dell’amministrazione Trump vede un agente della ICE scassinare illegalmente la serratura dell’edificio dove vive uno degli immigrati irregolari ricercati. Altre documentano raggiri e bugie per ottenerne la cooperazione, sbeffeggi (rivolti anche ai bambini separati dalle loro famiglie) ed eccessi di contenimento fisico; oltre alla richiesta, da parte dei superiori, di arrestare quanta più gente possibile, anche chi non effettivamente sulla lista dei ricercati. “Inizia a fare arresti collaterali. Non mi importa cosa fai, ma ferma almeno due persone” si sente dal vivavoce di un agente impegnato a guidare. “Sapeva che siete con me, vero?” chiede lui agli operatori che lo stanno accompagnando. “Perché è una cosa parecchio stupida da dire”.
Per poter girare la docuserie, la photo editor statunitense Cristina Clousiau e il giornalista israelo-americano Shaul Schwartz avevano stipulato un contratto con la ICE e ottenuto la piena collaborazione di un suo funzionario, incaricato al contempo di supervisionarne il lavoro. Consegnate le bozze del progetto, il clima di cooperazione si è però guastato. Per paura di conseguenze negative sulla propria carriera, i dipendenti coinvolti avrebbero chiesto di essere protetti dall’anonimato. Inoltre la ICE avrebbe fatto pressioni per tagliare le parti più controverse della docuserie o posticiparne l’uscita a dopo le elezioni del novembre 2020, minacciando di avviare cause legali contro la piccola società di produzione dei due registi, anziché rivolgersi direttamente a Netflix. L’accordo firmato dalla loro avvocata, Victoria S. Cook, per proteggerne l’indipendenza giornalistica ha tuttavia limitato il veto dell’amministrazione Trump alle sole “inesattezze fattuali”.
Immigrati e funzionari
In realtà l’idea di Immigration Nation risale al 2011, e cioè al periodo della presidenza di Obama. Schwartz però non era riuscito a individuare una strada sufficientemente solida per concretizzarla. La ICE esiste infatti dal 2003, ma è proprio con l’elezione di Trump che la sua gestione è cambiata radicalmente. Prima le squadre operative della ICE (negli anni aumentate da 8 a 129) avevano il compito di localizzare, arrestare ed espellere soltanto gli immigrati irregolari accusati di reati gravi. Con il decreto firmato da Trump pochi mesi dopo il suo insediamento, la priorità è stata estesa a tutti i migranti, benché due terzi di questi non abbiano compiuto crimini di alcun tipo, al di fuori dell’essere entrati illegalmente negli Stati Uniti.
Immigration Nation ne racconta le storie e ne segue i percorsi successivi al periodo di detenzione, qualsiasi esito essi abbiano. S’incontrano padri separati dai loro figli molto piccoli (e ricongiunti in seguito alle proteste dell’opinione pubblica); veterani espulsi dopo aver prestato per molto tempo servizio nell’esercito; immigrati detenuti o rimpatriati nonostante le loro richieste di asilo politico siano dovute alle minacce di morte da parte di alcune gang dei rispettivi paesi di origine.
Secondo il «New York Times», la ICE si sarebbe lamentata del grande spazio dedicato dalla docuserie ai migranti. Ma al di là della drammaticità delle loro storie, la parte più interessante di Immigration Nation riguarda proprio l’agenzia e i suoi funzionari.
Il successo della politica di “tolleranza zero” attuata da Trump viene valutato riducendo i migranti a semplici numeri: quelli arrestati e rimpatriati; quelli bloccati nel limbo burocratico; e pure quelli morti al confine. Eppure a subire questo processo di deumanizzazione sono altresì i singoli lavoratori della ICE.
Il sistema e il singolo
Molti dipendenti sono figli stessi di immigrati. Alle accuse di razzismo, alcuni rispondono di aver vissuto in prima persona situazioni di parenti arrestati ed espulsi. Pochi però rigettano esplicitamente gli standard aggressivi adottati dalla ICE. Gran parte degli intervistati dice di eseguire semplicemente il proprio lavoro nel far rispettare la legge. O almeno, si aggrappa a questa idea.
Non è bello guardarsi davvero allo specchio e pensare al sistema complesso di cui si è parte,
ha detto Schwartz. Perciò gli episodi sono un susseguirsi di funzionari e agenti che eccedono in gesti automatici da poliziesco; poi lasciano intendere il proprio disaccordo con la nuova politica della ICE; e infine, una volta realizzato di essere ripresi, tornano a rintanarsi nel ruolo di protettori del sistema. (“Rimuovere”, “Bersagli”, “È la legge!” sono le formule più gettonate.)
La macchina dell’immigrazione è “una burocrazia che si autoalimenta”, ha scritto il critico Mike Hale sul «New York Times». Immigration Nation racconta come, per mostrare un pugno duro, spenda quasi più energie a respingere gli immigrati, di quelle che invece le servirebbero ad accoglierli.
È abbastanza improbabile che la serie possa influire sulle prossime elezioni. Tuttavia fa un lavoro prezioso nel frammentare il sistema per osservare ogni singolo individuo chiamato a farsi carico di queste energie, privandosi della propria identità. La questione è ben riassunta nel primo episodio dall’avvocata Becca Heller, responsabile dell’International Refugee Assistance Project.
“Un’agenzia governativa può essere cattiva? No. Ogni persona all’interno della ICE è cattiva? No. La genialità del sistema è che il loro lavoro è stato suddiviso in modo tale da far sembrare giustificato quello che fanno giorno dopo giorno. Ma mettendole tutte insieme, le persone che fanno solo il loro lavoro, si crea questo folle sistema di terrore”.