“The Founder”: solo un altro film servile

Se la nostra generazione dovesse scegliere un film tra i tanti per raccontare il successo e l’arricchimento a tutti i costi, molto probabilmente sceglierebbe The Social Network, film di David Fincher sulle luci e ombre dell’ascesa di Mark Zuckerberg. Con la stessa facilità i nostri genitori parlerebbero di uno delle tante pellicole dedicate a Steve Jobs, che non costruì un impero a partire dal suo computer in cameretta, degnandosi per lo meno di scendere in garage. La scelta dei nostri nonni probabilmente, dopo averlo visto, cadrebbe su The Founder (2016), film di John Lee Hancock sulla vita, i successi e i misfatti di Ray Kroc.

Ben lungi dall’idea di costruire un impero tenendo le gambe sotto alla scrivania, il “fondatore” di McDonald’s rappresenta un modello un po’ più stagionato di “sogno americano”: partito dall’essere un venditore itinerante di cianfrusaglie senza mercato, Kroc riuscì ad accattivarsi i modesti ristoratori di un fast food della West Coast, per poi arrivare a derubarli delle proprie idee, del loro marchio e, infine, dei loro nomi. Se la sociopatia di Steve Jobs e la vena truffaldina di Mark Zuckerberg cercassero un antenato, lo troverebbero in Ray Kroc.

Ciò che, una volta conclusa la visione, sorprende di più della pellicola, è lo sfacciato tentativo del regista di non fare torto alla potentissima McDonald’s, rivestendo i misfatti di Kroc di un (già visto) romanticismo imprenditoriale e giustificando la sua immorale ascesa con un silenzioso “e che vuoi farci, sono americani!”. Ma la cautela inquisitoria e la pavida neutralità non sono la sensazione più urticante suscitata dal regista: la narrazione pedestre dell’ingiustificabile immoralità krochiana arriva persino ad un’imbarazzante leccata di piedi, favorendo le prospettive sugli edifici della multinazionale con scorci degni solo della sacralità del tempio di Delfi, e con sottofondi sonori richiamanti una candidezza nazionalistica francamente vomitevole. Il film abbandona tutte le potenzialità critiche dell’oscura biografia di McDonald’s per consacrare la narrazione (timidamente, ma in maniera decisa) alle strutture neoclassiche dell’egoismo imprenditoriale, che tutto pervade e tutto giustifica. Viste le controversie ambientali, igienico-sanitarie, occupazionali e legali che, da parecchi anni, ammantano la multinazionale di un’infida oscurità, l’opera di Hancock avrebbe potuto tracciare la genealogia di questi scheletri nell’armadio e risparmiarsi il favore della grande catena, cosa che gli avrebbe sicuramente procurato molti guai sul piano giudiziario, ma che avrebbe dato la palliativa speranza allo spettatore consapevole di una non totale industrializzazione del cinema, di una possibile vita residua e profitto-indipendente dell’operazione culturale. Hancock non è Ken Loach, e non prova nemmeno a darci la magra soddisfazione di questa incosciente speranza.

Kroc si esprime nelle parole e nei gesti con la solita, grigia e falsamente accesa retorica aziendale, a cui negli ultimi anni siamo così tanto abituati. Prima del successo derivato dall’appropriamento indebito dell’idea dei fratelli McDonald, Kroc va alla ricerca di un posto nella società attraverso gli strumenti della sagace furberia e dell’immorale persuasione. Invaghito dalle parole dei suoi istrioni, sostiene che la componente più propriamente agente, responsabile e umana dello sforzo verso la creatività sia spesso fine a se stessa e condannata all’insuccesso. Egli comprende la finalità intrinseca di educazione, genio e talento, e proprio in virtù di essa non le accetta: egli non sa che farsene del proposito umano ed ideale, poiché il solo scopo che la sua persona materiale, grigia e borghese può comprendere è quello estrinseco, vale a dire la sacra trinità aziendale di “denaro”, “potere” e “persuasione”. Quest’ultima serve a procurare e conservare le prime due, e Kroc la raggiunge attraverso l’esercizio della «perseveranza», concetto di per sé nobile ma defraudato della sua qualità migliorativa e consegnato all’animalità del profitto categorico e dell’asfaltamento sociale.

Il fondatore, in realtà, non ha fondato un bel niente. Dopo una vita passata rincorrere occasioni di profitto troppo sfuggenti, Kroc ha l’occasione di conoscere i fratelli McDonald e la loro invenzione, diventare loro socio e tramare alle loro spalle per costruire un impero basato sullo sfruttamento estetico e logistico dell’impresa originaria. Kroc si è nutrito dei sentimenti positivi di una relazione ingenua e di per se gratuita, la famiglia. Non ha fatto che conservarne l’estetica rassicurante, privandola tuttavia della sua forza sentimentale e del suo spirito definitivamente non profittatore. Ha fatto quell’opera di cui l’imperialismo capitalistico americano si è servito per colonizzare l’incolonizzabile: svalutare l’umanità e trasformarne le pratiche in profitti, mettere su ogni bacio un prezzo, sedere come il convitato di pietra e ricordare che non c’è gesto, non c’è parola e non c’è pratica che non abbia, in fondo, un interesse di mercato.

La meccanicizzazione produttiva del corpo lavorativo di McDonald’s, associata all’originario ideale di accoglienza e pubblica comunione che caratterizzava la modesta ristorazione dei fratelli, si associano nella mente del capitalista Kroc nella possibilità di una presa in giro, garanzia di consumo. Forse McDonald’s è stata la prima creazione moderna di quella customer experience a cui oggi siamo così abituati: un palcoscenico luminoso, ebete e floreale che ci accoglie tra le braccia di un’apparente familiarità, ma solo al fine di nutrirci tutti dello stesso prodotto di scarto e consegnarci alla dipendenza eterna. Se i fiori nascono dal letame, la tendenza qui si inverte: dalla famiglia nasce l’omologazione, il meccanismo, il consumo seriale e la ricchezza. Della famiglia non resta nulla, e il profitto di padron Kroc si afferma come l’unico valore significativo di cui abbia senso parlare.

the founder

Quando Kroc convince i due fratelli ad espandere l’attività, lo fa intimando “Do it for America!”. Ma la nazione è qui soltanto un feticcio, un idolo innocente che va bene soltanto finché funziona. Alla fine del film vediamo come il protagonista si prepara a colloquiare con Reagan: chi, se non quest’ultimo, può spiegarci cosa contino lo Stato e la nazione per un capitalista? Finché la tassazione è regressiva, gli interessi sono favorevoli e la possibilità di arricchirsi sul lavoro degli altri è garantita, allora ciascun ricco si sentirà americano. Per Kroc la nazione, come la famiglia e i buoni sentimenti, non sono che alibi, cocce vuote da riempire di profitto. Gli si sente ripetere più volte espressioni totalizzanti e contraddittorie come “siamo una grande famiglia” e “il business è una guerra“, ed è possibile che un controsenso del genere sussista nella stessa bocca solo quando “famiglia” e “guerra” non hanno alcun valore, sapendo che non c’è altra parola che “profitto”. Kroc va in giro per l’Illinois per convincere la piccola borghesia allo sbaraglio ad investire nella sua impresa, e lo fa chiedendogli di «condividere gli stessi valori», chiedendogli di essere «compagni di squadra». Egli paragona gli archi dell’architettura di McDonald’s alla bandiera americana e alla croce cristiana, e questo perché? Perché è possibile relativizzare, fino a nullificare, l’assoluto di un simbolo, di un valore e di una fede tanto da renderlo un manifesto pubblicitario, la scorza sensibile e sensuale di una venalità senza altri scopi.

Kroc ammette, di fronte alla moglie, che «non sarà mai abbastanza», che egli non è in grado di sostenere una vita che non sia quella. L’ottica del profitto sfruttatore è una droga così aggressiva da sostituirsi alla linfa vitale, e persino l’arte, il cinema si arrende a questa moderna debolezza. Hancock usa i titoli di coda per ricordare come San Kroc abbia lasciato miliardi di dollari in beneficenza e di come la sua creatura, ogni giorno, nutra di scarti di bovino l’1% dell’umanità globale. Non sappiamo se ci sia posto in paradiso per chi ci si è arrampicato coi pugnali, ma sappiamo per certo un’altra cosa: l’arte al servizio di un potere ingiusto non è arte.


FONTI

The Founder, John Lee Hancock, 2016

 

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