L’ascesi teoretica della morte apparente e nascita della filosofia: come i perdenti trasformano una sconfitta in vittoria
Dove siamo quando pensiamo? Questo il titolo che Hannah Arendt (1906-1975) sceglie di dare ad un capitolo del suo scritto La Vita della mente. La domanda, in effetti, è più che lecita, e forse molti di noi se la sono spesso posta. Dove siamo quando pensiamo? Dove andiamo?
La domanda sul luogo – non luogo in cui ci situiamo pensando è tema ricorrente nella filosofia moderna e contemporanea, ma attraversa anche la filosofia antica, soprattutto dal momento in cui si sposta l’attenzione dalla physis (φύσις , cioè la natura, argomento centrale soprattutto nelle osservazioni dei presocratici) all’antropologia.
Facciamo finta di essere in un dialogo socratico, “giochiamo” a trovare le definizioni. Che cos’è “pensare”? Cerchiamo di definire. Pensare è interrompere le ordinarie attività quotidiane, immergersi in un altrove non empiricamente, spazialmente, fisicamente definibile. In un certo senso, pensare è assentarsi. Quando pensiamo e ci lasciamo trasportare dai nostri pensieri è inevitabile perdere il contatto con ciò che ci è fisicamente più prossimo.
Emblema di queste assenze e fughe altrove è la figura di Socrate. I dialoghi platonici sono cosparsi di moltissime descrizioni di un Socrate che, spesso nei momenti meno opportuni, quando è in mezzo ad altre persone, perde il contatto con il mondo che lo circonda e finisce altrove. Per esempio, proprio all’inizio del Simposio, uno dei dialoghi platonici più celebri, si narra che Socrate sia in ritardo, in quanto si era trattenuto in uno dei suoi tipici momenti di raccoglimento, di meditazione, di pensiero. E, ovviamente, come sempre succedeva, aveva perso la cognizione del tempo, dello spazio, delle cose.
La storia della filosofia antica è pervasa di queste assenze. Celeberrimo è l’aneddoto su Talete, il quale, intento a passeggiare guardando il cielo stellato, cadde in una buca, suscitando il riso di una servetta tracia. È Aristotele a narrarci questa storiella, ponendo l’accento sul riso della servetta tracia, la quale rimproverò a Talete di essere talmente tanto immerso nei propri pensieri da essersi addirittura dimenticato di guardare i propri piedi. Come se pensare fosse inutile, come se i filosofi non fossero in grado di occuparsi delle faccende pratiche. A smentire tale diceria ci viene in aiuto un altro aneddoto su Talete (del quale avevo parlato in questo articolo), nel quale si racconta lo stratagemma che Talete usò per dimostrare che i filosofi, qualora volessero, sarebbero abilissimi ad arricchirsi e ad occuparsi delle faccende mondane: se non lo fanno, è solo perché non vogliono.
Il discorso sul dove andiamo quando pensiamo si collega strettamente al concetto deviato che abbiamo di theoria. È necessario dunque fare chiarezza. Come spiega molto giustamente Pierre Hadot nelle prime pagine del suo Che cos’è la filosofia antica?, alla theoria degli antichi non dobbiamo accostare, o, peggio, sovrapporre, il significato che noi moderni attribuiamo alla parola teoria. Noi siamo soliti impiegare la parola teoria contrapponendola a pratica: ciò che è astratto e speculativo si contrappone a ciò che è attivo, concreto, dinamico. Per i greci la parola teorico esisteva, ma veniva intesa in contesti più tecnici (non filosofici, per intenderci) come “ciò che si riferisce ai procedimenti”. La parola teoretico, invece, viene intesa dagli antichi (Aristotele per primo):
per indicare da una parte il modo di conoscenza che ha come scopo il sapere per il sapere e non un fine esterno a se stesso e, dall’altra parte, il modo di vita che consiste nel consacrare la vita a questo modo di conoscenza. In questo senso, “teoretico” non si oppone a “pratico”.
Teoretico non si oppone a pratico proprio perché con teoretico viene inteso un vero e proprio stile di vita, un atteggiamento filosofico. Che è poi l’atteggiamento filosofico del Socrate che muore serenamente perché ha abituato la sua anima a non avere bisogno del corpo. Come? Questo lo vedremo nel prossimo articolo. È bene, prima di addentrarsi nel punto più affascinante della filosofia antica, riflettere su questo: la filosofia antica è estremamente diversa dalla filosofia con cui siamo abituati ad avere a che fare noi. Gli antichi intendono la filosofia come un vero e proprio stile di vita da abbracciare a trecentosessanta gradi, non come un indottrinamento dogmatico fine a se stesso o come un imparare nozioni da ripetere a memoria. A prova di questo abbiamo diversi elementi.
Innanzitutto già i pitagorici erano noti per il loro regime alimentare votato al vegetarianesimo, così come molte altre sette e scuole filosofiche antiche avevano i loro rituali e le loro diete. Quando si parla di scuole filosofiche antiche non bisogna mai pensare che queste fossero strutturate come le scuole a cui noi moderni siamo abituati, con le interrogazioni e gli insegnamenti frontali, per intenderci. Basta pensare che nell’Accademia di Platone e nel Liceo di Aristotele l’importanza non era attribuita tanto alle dottrine quanto piuttosto al metodo, al dialogo, al confronto: la parte più importante era la discussione, e tanto Platone quanto Aristotele e ciascun membro erano pronti a rimettere in discussione le proprie tesi, una volta ascoltate le argomentazioni dei compagni. Si mangiava insieme, spesso gli studenti volevano vivere nei pressi delle abitazioni dei maestri.
Siamo abituati ad una filosofia che non è mai stile di vita, ma, effettivamente, dottrina e teoria. Niente di più lontano da ciò che Socrate, Platone e Aristotele avrebbero voluto. Nel prossimo articolo capiremo in che senso.
Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Torino, 2010
Michael Erler, Platone, un’introduzione, Einaudi, Torino, 2008
Peter Sloterdijk, Stato di morte apparente, filosofia e scienza come esercizio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011
Platone, Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Mondadori, Milano 2004
Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2018