Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
in quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori
lì ci troverai i ladri gli assassini e il tipo strano
quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano.
La Città Vecchia/Delitto di paese è l’ottavo quarantacinque giri del cantautore ligure, pubblicato nel novembre del 1965. Due sole tracce, un unico vicolo sgangherato in copertina. Il duplice racconto di De André prende le mosse proprio da quel vicolo, dai quartieri più malfamati che circondano il porto di Genova.
Vecchi alcolizzati, una bambina e un vecchio professore all’apparenza conformista, che ricerca in una prostituta un momento di piacere, forse una conferma di mascolinità. I personaggi che popolano le descrizioni del musicista non suonano nuovi alle nostre orecchie. “De André poeta degli ultimi“: quante volte l’abbiamo sentito?
Da Genova a Trieste
Sulla stessa strada, poco più lontano, si muove un altro – più convenzionale e forse meno dibattuto – poeta, oltre cinquant’anni prima: si tratta di Umberto Saba, che alla sua Trieste dedica i noti versi di Città Vecchia. Protagonista della poesia è ancora una volta un viavai variegato di umanità, che odora di vino, sporcizia e salsedine. De André ammette di averne preso ispirazione, nel titolo come nel contenuto.
Ora, sono molti i paralleli che corrono tra l’autore triestino e il cantautore genovese. Ma sono altrettante le differenze. Siamo nel 1910; Saba è nato e vive a Trieste, allora ancora sotto il dominio austro-ungarico, a cui apparterrà fino alla fine della Prima guerra mondiale. Trieste è una città di periferia, è la città degli ultimi, degli emarginati. Dura è per i maggiori intellettuali di inizio secolo emergere, lontani da Firenze, cuore pulsante della tradizione letteraria, dalla capitale, ma anche da Milano, culla dinamica dell’editoria.
Ma è proprio a questa città dei margini che Saba dedica alcune delle liriche più belle, nonché una delle sezioni del Canzoniere (1921, prima edizione): Trieste e una donna.
Città Vecchia si apre su uno scenario affollato, la “periferia della periferia” dove l’autore, nel rientro verso casa, si trova spesso a passeggiare.
Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare.
Un altro porto, come quello di Genova. Poi un’altra osteria:
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore
“Tutte creature della vita”
Com’è possibile che, a distanza di cinquant’anni, nelle periferie di due città diverse ci si possa scontrare con gli stessi personaggi? Quelli in cui ci imbattiamo sono quadri di umanità dimenticata, che affolla le strade di Trieste come quelle della Genova degli anni Sessanta. Certo, per quanto il punto di partenza sia il medesimo, la ricezione di quell’umanità “in eccesso” trova in Umberto Saba e in Fabrizio De André due voci differenti. Se il primo ammette infatti di ritrovare passando, l’infinito nell’umiltà e di sentirsi un tutt’uno con gli uomini e Dio, per De André l’identificazione è più complessa. Così scrive il poeta triestino:
Sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
La passeggiata di Saba si fa catartica, nel senso greco del termine. Una purificazione che viene dal basso, ma innalza verso l’alto. Più ironico e critico è invece lo sguardo del cantautore:
Nei quartieri dove il sole del buon Dio
non da i suoi raggi
ha già troppi impegni per scaldar la gente
d’altri paraggi.
“Ma se capirai…”
Di sicuro Dio non volge i suoi occhi verso la donnaccia o il vecchio professore, né sul musicista a passeggio. Genova rimane patria dei ladri e degli assassini. Attenzione però, qualcosa si può fare. Ecco Faber poeta degli ultimi; ecco, se non l’identificazione, la più onesta comprensione, che reca parole commosse:
Se tu penserai e giudicherai
da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni
più le spese
ma se capirai se li cercherai
fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo.
Genova non è solo luogo degli infimi; è anche luogo dell’ipocrisia, del pregiudizio. Non è allora necessario cercare Dio negli anfratti di una città sporca. Quello casomai viene dopo. Basta forse, tanto per cominciare, osservare l’uomo, sforzarsi di capirlo, anche nei suoi comportamenti più imperscrutabili. E magari cantarlo, come ne hanno cantato Umberto Saba o Fabrizio De André. Un canto che restituisce persino a “quattro pensionati mezzo avvelenati” la loro dignità.
Stefano Carrai, Saba, Salerno Editrice, 2017.