Chi furono gli artisti di controtendenza del primo Novecento?

Chi furono gli artisti di controtendenza del primo Novecento? Per rispondere a questa domanda, partiamo dal concetto di storicizzazione dell’arte. Da sempre, la storia dell’arte si presenta come una disciplina che tende a periodizzare l’esperienza artistica dell’umanità. Lo fa seguendo una linea storico-cronologica che inizia, tradizionalmente, dalla cosiddetta Arte Primitiva – dunque pitture e incisioni rupestri – fino ad arrivare all’Arte Contemporanea.

Si potrebbe dare qualunque giudizio sulle pretese storicizzanti della storia dell’arte ufficiale. Tuttavia è comunque necessario riconoscere che tale periodizzazione è necessaria. L’essere umano stesso, infatti, ha l’impellente necessità di ordinare la propria esperienza in base a un prima e un dopo. Se non ci fosse tale organizzazione, l’umanità sarebbe in preda ad una confusione di immagini dalle quali sarebbe difficile uscire. 

Perché è importante valorizzare le sfumature storiche dell’arte

Insomma, strutturare la storia dell’arte come, appunto, una storia è di fondamentale importanza, poiché permette di mettere a fuoco quale percorso la sfera artistica abbia seguito nel corso della sua evoluzione. Non è raro, però, che una simile disposizione cronologica venga comunemente percepita in maniera rigida e strutturata. Come se gli stessi periodi artistici iniziassero e finissero di punto in bianco, senza nessuna sfumatura o evoluzione progressiva tra l’uno e l’altro. Ma vi è di più. 

Piero della Francesca, Città Ideale, 1490 ca., Tempera su tavola,
Galleria Nazionale delle Marche, Urbino

Un’altra conseguenza che questo approccio ha sulla percezione delle fasi artistiche nella loro collocazione storica è quella di fornire visioni spesso molto standardizzate e idealizzate dei periodi artistico-culturali. Vi è il rischio, infatti, che un periodo culturale venga in qualche modo assimilato a una visione standard.

Questo rischio lo si sperimenta ogni qual volta si pensa, ad esempio, al Rinascimento come un’epoca purificata totalmente dall’immaginario medievale. Come un periodo pullulante di immagini e opere che si rifanno esclusivamente ad un’estetica classicheggiante. 

In realtà non fu proprio così. O meglio, è normale che il Rinascimento venga ricordato soprattutto come l’epoca dei vari Michelangelo e Raffaello, ovvero come la rinascita della classicità. Ma è anche importante aver bene a mente che non vi fu solo la classicità nel Rinascimento ma che, in modo sotterraneo, l’estetica medievale continuò ancora a proseguire. Avvenne questo, seppur ormai senza più quel vigore che, chiaramente, la caratterizzava nell’epoca precedente in cui prese piede.

Arte contemporanea (?)

Ecco, questa precisazione vale un po’ per tutte le epoche artistiche. Anche per la cosiddetta Arte Contemporanea, termine canonicamente impiegato per indicare quel periodo artistico che, all’incirca, va dalla fine del ‘700 sino ai giorni nostri.  Si differenzia subito da molte epoche artistiche, come il Rinascimento o il Barocco, che sono individuate con termini che non definiscono tanto la loro collocazione cronologica, quanto più, invece, con termini che fanno emergere le loro peculiarità propriamente stilistiche. L’Arte Contemporanea viene invece identificata con un termine profondamente storicizzante.  

Pertanto impieghiamo l’espressione Arte Contemporanea con l’accezione di “quell’arte che più si avvicina ai giorni nostri”. Non si tiene però conto che, a ben vedere, l’Arte è sempre contemporanea. Non solo perché ogni artista è contemporaneo per il suo tempo, ma, volendo adottare un approccio ancora più radicale, perché le stesse opere d’arte nella loro oggettivazione sono contemporanee.

Cosicché quando, ad esempio, si visita una pinacoteca, le opere che si osservano – dalle statue greche sino alle tele d’Avanguardia – si presentano come oggetti tangibili. Come frammenti sopravvissuti all’opera del tempo, che si percepiscono qui e ora, in questo momento, indipendentemente dal fatto che essi siano stati prodotti 2.000 o 20 anni fa. Del resto non sono pochi i critici d’arte che spesso hanno torto il naso davanti all’espressione Arte Contemporanea, accusando proprio questa carenza concettuale e teorica del termine.

La scelta del termine ci sta un po’ stretta
Umberto Boccioni, L’antigrazioso, 1912, Olio su tela, Collezione Privata

Ed è peraltro assai bizzarro che proprio un’epoca come il Novecento, che ha visto la più ambiziosa e radicale sperimentazione artistica mai messa in atto, venga inquadrata nel termine Arte Contemporanea. Appare paradossale, dunque, che l’arte novecentesca, così sperimentale e fuori da ogni logica storica, confluisca in una rigida e sistematica categorizzazione cronologica.

Dal cubismo, all’astrattismo, fino ad arrivare all’arte concettuale si assiste a una lunghissima traiettoria artistica. Questa non fa altro che sradicare sempre di più le opere d’arte dalla loro collocazione spaziale e temporale. Del resto, la parola stessa Astrattismo affonda le radici nel verbo latino ab-strahere, ovvero togliere, staccare, separare da.

Abbiamo appurato dunque che l’impiego del termine sia, in qualche modo, zoppicante e non regga, talvolta, la vera essenza dei procedimenti evolutivi che l’arte segue. Ma è altrettanto interessante notare come anche la stessa Arte Contemporanea – in particolare l’arte del ‘900 – venga assimilata a topos che identificano questo particolare periodo artistico in immagini standard e idealizzate. Ma non tutto procede lineare, c’è anche chi agisce in controtendenza

A chi appartiene il Novecento?

Il Novecento viene infatti visto come il secolo di Picasso, Boccioni, Kandinsky, Mondrian, Duchamp e molti altri nomi celebri. Ovvero come il secolo delle grandi Avanguardie artistiche, che rappresentano un punto di rottura definitivo con la tradizione artistica occidentale e che inaugurano, appunto, il Novecento. Ma anche in questo caso vale il medesimo discorso fatto più sopra per il Rinascimento.

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Franz Marc, La mucca gialla, 1911, Olio su tela, Salomon R. Guggenheim museum, New York

È infatti impossibile pensare che qualsiasi artista nel Novecento- in particolare nel Primo Novecento – abbia aderito integralmente alle cosiddette Avanguardie. Tuttavia il prezzo che alcuni di questi artisti hanno pagato per aver scelto di restare fedeli alla tradizione è stato quello di passare inosservati dal grande pubblico e dalla grande critica. Per ritrovarsi, in alcuni casi, relativamente dimenticati. Una sorte non lodevole per gli artisti di controtendenza.

Questo però non significa che non fossero abili artisti o non meritevoli di una lucida e critica analisi. Anzi, negli ultimi decenni la Storia dell’Arte, dopo aver metabolizzato le Avanguardie e tutto ciò che ne è derivato, ha cercato in qualche modo di recuperare tutti quegli artisti che erano stati dimenticati dalla critica. Su alcuni di essi è stata prodotta una valutazione piuttosto esaustiva, completa e interessante.

Coloro che sono stati abbandonati dalla critica

Appare chiaro che non sia possibile riassumere qui tutti quanti gli artisti che meritano di essere segnalati ed analizzati. Ci limiteremo dunque a prenderne in considerazione solo alcuni che, a loro modo, presero le distanze dagli sperimentalismi formali e tematici dell’arte del Primo Novecento. Oppure che vi aderirono inizialmente, scegliendo però in seguito di proseguire per la propria strada. 

Di fatto, si potrà osservare come alcuni di essi risultino, in un certo senso, “anacronistici” (ad esempio il gruppo dei “Labronici”), altri invece (forse anche più noti), pur rimanendo in qualche modo devoti al canone (sopratutto sul piano formale), furono comunque tanto moderni quanto i cosiddetti “pittori d’Avanguardia”…

I Labronici

Tutto sono, fuorché moderni, i cosiddetti Labronici. Possiamo quindi definirli come i perfetti pittori di controtendenza. Si tratta di un gruppo di pittori livornesi – da qui il termine labronici, sinonimo di livornesi- nato nel 1920 e costituito da nomi quali Oscar Ghiglia, Gino Romiti, Renuccio Renucci e altri ancora.

Sono tutti pittori che, dopo la morte nel 1920 dell’amico Mario Puccini – pittore toscano soprannominato il “Van Gogh livornese” – si riunirono con idee molto diverse e con una certa “anarchia pittorica”. Tuttavia avevano l’intenzione di accomunare l’interesse condiviso per l’espressione artistica e fondare un gruppo, successivamente chiamato Gruppo Labronico.

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Renuccio Renucci, Barca al molo, olio su compensato

Noti anche come i post-macchiaioli, hanno prodotto opere che nessuno direbbe che siano state create nella prima metà del ‘900.  La loro è infatti una pittura totalmente isolata rispetto ai movimenti artistici a loro contemporanei, quali il cubismo, l’astrattismo, il surrealismo. Si tratta di una pittura che non ha nulla a che fare con lo sperimentalismo del loro tempo, ma che sembra legata ancora a un linguaggio ottocentesco, profondamente ancorato alla realtà e pure quasi anacronistico sul piano tecnico-stilistico.

Un tipo di pittura anacronistica

Quella del Gruppo Labronico sembra infatti una pittura  bloccata nel tempo, a sé stante. Una pittura di gusto provinciale, che pare non subire gli effetti del tempo e della modernità incombente. Al tempo stesso, però,  è dotata di una certa leggerezza e raffinatezza, che traspaiono dall’uso di colori giustamente calibrati e applicati con pennellate morbide, leggere, per nulla nervose.

Ad ogni modo, pur raccogliendo la tradizione macchiaiola di Giovanni Fattori e quella divisionista di Segantini, il Gruppo Labronico restò sempre isolato nel proprio credo artistico, finendo per essere parzialmente dimenticato dalla critica novecentesca.

Carlo Carrà

Quasi tutti i miei dipinti nascono da un lavoro interiore oscuro e lento. E la loro soluzione non mi viene che dopo lunghe ricerche, magari dopo anni…

Decisamente più noto, nonché più moderno, fu invece Carlo Carrà. Un pittore assai eclettico, che nella sua carriera artistica ha attraversato lunghe e tormentate fasi di sperimentazione  e metamorfosi stilistica. Tuttavia, non è mai arrivato davvero a un punto di approdo, a uno stile pittorico che più si addicesse alle sue necessità espressive. Ma ha continuato  per tutta la sua carriera a variare stili, tematiche e poetiche in maniera intermittente.

È piuttosto singolare, infatti, il percorso artistico di Carlo Carrà. Un viaggio decisamente eterogeneo, stimolante e molto contraddittorio, per certi versi. Carrà infatti esordisce con dipinti paesaggisti che richiamano un linguaggio pittorico certamente di stampo divisionista. Dopo l’esperienza divisionista, Carrà aderisce al Futurismo, influenzato sicuramente dall’incontro con Boccioni, nel 1908, e dall’intensa relazione con Leda Rafanelli (scrittrice e anarchica italiana, sostenitrice del Futurismo).

Sarà un periodo molto fecondo quello futurista, sia sul piano artistico che sul piano politico. Di questa fase si ricordano opere quali La stazione di Milano (1910), I funerali dell’anarchico Galli (1910), oppure Manifestazione interventista (1914). Tutti dipinti dai quali emerge appieno il dinamismo, la velocità, l’interventismo della pittura futurista, unica nota moderna nell’Italia degli anni ’10.

Oltre il futurismo e la pittura metafisica, verso il trascendente
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Carlo Carrà, Manifestazione interventista, 1914

Tuttavia, a partire dal 1915, Carrà decide di abbandonare il Futurismo che tanto lo aveva impegnato, per aderire alla metafisica di De Chirico e Filippo de Pisis. Si apre qui una fase ancora più fertile per il pittore, destinata però, anch’essa, a terminare nel 1922. 

Infatti nel 1922 Carrà compie un’inversione di stile radicale, dettata sicuramente da una forte necessità di ritrovare un certo ordine, una certa pulizia formale e tematica. Ha dunque inizio quello che i critici d’arte definiscono come il “periodo trascendente”di Carrà. Una fase artistica durante la quale il pittore abbandona totalmente i linguaggi fino ad allora appresi. Oltre quindi alla frammentazione divisionista e al dinamismo futurista, conservando solamente l’immobilità e il silenzio della pittura metafisica.

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Carlo Carrà, Le figlie di Loth, 1919, olio su tela, MART, Rovereto

È in questo periodo infatti che si colloca l’opera Le figlie di Loth. Un dipinto in cui Carrà riprende profondamente la tradizione figurativa della penisola. A partire dal piano tematico – si tratta infatti di una scena biblica – ma soprattutto sul piano formale e stilistico.

Le figlie di Loth (1919)

La scena, racchiusa in una prospettiva a scivolo che richiama i primi esperimenti prospettici del ‘400, sembra essere sospesa nel tempo. È infatti uno scenario dominato da un’estrema immobilità e avvolto da un silenzio assoluto. Gli stessi corpi, realizzati dal pittore con tonalità tenui, per nulla ancorati alla realtà, sembrano aleggiare nello spazio e non paiono per nulla umani. Sembrano piuttosto statue, figure, manichini, a cui è stata tolta la temporalità e la collocazione spaziale.

Sono corpi sospesi nella storia, il cui contorno deciso marca notevolmente la loro dislocazione spazio-temporale. Personaggi dotati di una geometrizzazione che richiama molto il linguaggio matematico e geometrico di Piero della Francesca. Ma al tempo stesso appaiono radicati in un passato remoto che pare non poter tornare più.

Questo Carrà lo sa bene ed è proprio in funzione di ciò che, consapevolmente, conferisce alla scena una leggera nostalgia. Questa emerge tanto dai corpi inespressivi, quanto dalle scelte cromatiche. Come si è potuto osservare, quindi, quello di Carlo Carrà è un percorso artistico che sembra procedere verso una lenta e sofferta purificazione di stile, quasi a voler recuperare un’idealità e una perfezione perdute.

Giorgio Morandi

Sicuramente molto noto e tuttavia per nulla aderente alle sperimentazioni artistiche del suo tempo fu Giorgio Morandi. L’artista che, più di tutti, scelse di allontanarsi dall’arte del suo tempo e che, proprio per questo, fu tanto moderno quanto i suoi contemporanei.

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Giorgio Morandi, Natura Morta, Olio su tela

Isolatosi dal resto delle avanguardie, Giorgio Morandi fonda la sua pittura sulle nature morte, eseguendo principalmente composizioni di bottiglie e bicchieri. Così per tutta la sua carriera, Morandi resterà ancorato a questo tema, realizzando dipinti apparentemente molto analoghi tra loro.

La natura morta come specchio dell’anima

Ed è infatti la monotonia e la solitudine dell’essere che il pittore sceglie di rappresentare, mediante composizioni di nature morte quasi monocromatiche e che solo apparentemente sembrano aderire alla realtà. Poiché, a guardarle bene, sono in qualche modo composizioni profondamente astratte.

Il pittore bolognese sceglie di isolarsi dagli ambienti artistici e mondani, rinchiudendosi nel proprio mondo interiore. E questo suo mondo ovattato, trascendente, a tratti anche sofferente, emerge tutto nelle nature morte. Sono composizioni di oggetti comuni che diventano però, per il pittore, la figurazione di quel suo mondo interiore.

Le bottiglie e i bicchieri, dunque, finiscono per non essere più semplici oggetti comuni, ma ovali, quadrati, rettangoli dai colori freddi. Elementi dunque astratti, metafisici, che trascendono la mera materialità e diventano per Morandi l’immagine-specchio del suo spirito. 

Mario Sironi

Un percorso simile a quello di Carlo Carrà fu quello compiuto da Mario Sironi. Un pittore inizialmente legato al Futurismo ma che, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale – come molti altri artisti – scelse di tornare a una certa tranquillità, quasi totalmente estranea al dinamismo e al movimentismo dello stile futurista. Un po’ come se, negli anni ‘20, dopo la devastante esperienza della Grande Guerra, si fosse spento quell’ardore interventista e avesse lasciato spazio ad una sorta di ritorno all’ordine.

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Mario Sironi, Solitudine, 1925, Olio su tela

Infatti nel 1925 Sironi realizza un’opera intitolata Solitudine. Un dipinto in cui il pittore raffigura una donna, seduta e appoggiata con il braccio sinistro, che sembra rivolgere lo sguardo verso qualcosa o qualcuno, ma molto probabilmente si tratta di uno sguardo proiettato nel vuoto.  

I tratti stilistici di “Solitudine” (1925)

La donna è sola, immersa in un’atmosfera resa rigida e severa dall’uso sapiente dei contrasti chiaroscurali e dal volume del corpo marmoreo. Un’atmosfera che si colloca in un non-luogo, come gli spazi metafisici di de Chirico e de Pisis. 

Al tempo stesso la figura della donna è dotata di una certa solidità plastica, da cui emergono certi richiami stilistici di stampo cubista. Si tratta chiaramente di una figura mediterranea, solida e severa nei tratti fisionomici. La sua severità, tuttavia, viene parzialmente ammorbidita dallo sguardo, dal quale trapela una certa melanconia, e dalla postura che sembra in qualche modo incurvata dal peso dei pensieri.

Questi dettagli rivelano anche tutta l’umanità della figura che, se non fosse per lo sguardo e la postura, potrebbe benissimo essere assimilata a una statua arcaica, tale è la durezza del volto, degli elementi anatomici, nonché dello spazio circostante.

In conclusione

Come si è potuto osservare, in questa breve rassegna sono stati presi in considerazione diversi pittori italiani di controtendenza. Alcuni scelsero di non aderire per nulla a linguaggi artistici sperimentali (come nel caso dei “Labronici”). Altri vi aderirono inizialmente, per poi proseguire la loro carriera adottando una propria poetica del tutto personale e sicuramente legata, per uno o per l’altro aspetto, alla tradizione figurativa.

Alcuni dei pittori di cui si è parlato saranno, in qualche modo, familiari (come Carlo Carrà o Morandi). Altri invece potranno apparire del tutto sconosciuti (come i Labronici). Resta il fatto che, chiaramente, di artisti nel ‘900 ve ne sono stati, ma molti di essi sono stati e sono tutt’ora dimenticati.

Ciò che però, in conclusione, è bene sapere è che se alcuni artisti tradizionali sono passati così inosservati nel corso del Novecento non fu solo a causa di una dimenticanza della critica. Bensì perché, forse, non ebbero quella sensibilità di comprendere i cambiamenti storici, sociali e culturali del loro secolo. Un insieme di cambiamenti che invece artisti quali Picasso, Duchamp, Fontana – per citarne alcuni- capirono eccome. Proprio per questo presero coscienza della necessità di un’inversione radicale del linguaggio artistico. Quello che avrebbe dovuto, in qualche modo, dare voce al loro spirito del tempo. 


FONTI

Sgarbi V., Il Novecento. Vol. 1: Dal futurismo al neorealismo, La Nave di Teseo, 2018.

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