Chi sono davvero i cattivi?

Che cos’è il Male? Chi stabilisce cos’è Male e cos’è Bene e, quindi, chi sono i cattivi? Cosa ce lo insegna? Ebbene, tutto ciò che ci circonda.

Sono numerosi gli intellettuali che hanno dedicato tempo ed energie a cercare di spiegarsi come certe nozioni siano, seppur arbitrarie, fortemente radicate nella società di oggi senza realmente avere basi solide su cui fondarsi. Uno di questi è Piero Bocchiaro, che in Psicologia del male pratica un’analisi accurata di come questa forza nasca e di come si sviluppi attraverso quattro esempi noti alla storia della psicologia sociale: il caso Eichmann, il delitto Genovese, la tragedia dell’Heysel e le torture di Abu Ghraib. Passando per queste vicende simboliche, l’autore sceglie di puntare alla questione che più gli interessa: sottolineare cioè che “immersi in un certo campo di forze situazionali, potremmo mettere in atto comportamenti spietati che pure consideriamo completamente estranei alla nostra natura”. In sintesi? Un individuo agisce in maniera “estremamente crudele se posto in circostanze insolite ed estreme”.

A questo punto, l’intera società applica di fronte a eventi di natura spietata un meccanismo di difesa per mezzo del quale l’immedesimazione in chi commette tali atrocità si blocca e diventa per noi un fatto totalmente incomprensibile e soprattutto disumano. Così si creano i buoni e i cattivi, i giusti e i fuorilegge. Ma non è forse l’immedesimazione, la conoscenza dell’altro a permettere agli uomini di capire le ragioni altrui? Questa domanda sta alla base di un intero filone culturale che da una decina di anni a questa parte ha dato inizio a un vero e proprio esperimento cinematografico di ricerca e scavo nell’interiorità della parte del mondo corruttibile e che contravviene alle regole dell’etica: i cattivi del cinema. Basti pensare alle pellicole per bambini Cattivissimo Me (2010), Ralph Spaccatutto (2012) e Maleficent (2014) o alle serie televisive per adulti come Lucifer (2016), fino ad arrivare al recente successo della pellicola da oltre 600.000.000 di incassi di Todd Phillips Joker (2019).

Cosa accomuna queste storie di individui che, diversamente dal solito, non sono gli eroi destinati al lieto fine, ma ribelli in conflitto con il mondo e amanti del caos? A quanto pare, la loro inalienabile umanità. Se si riflette un istante sulle loro vicende si riuscirà a far emergere un file rouge drammatico che porta i personaggi a fare delle scelte sbagliate, mai obbligate, ma che sistematicamente si ripresentano sul loro cammino, come un campanello che scuote il loro animo silenziosamente e ripetutamente ogni qualvolta i protagonisti di queste tragedie provino a migliorare, ricevendo come risultato contrario una delusione rovinosa. “Io non farei così”: è questa la risposta che si tende a dare agli altri, e soprattutto a se stessi, di fronte a vicende che paiono spietate, quasi irreali: coloro che vi assistono si sentono liberi, pur senza diritto, di farle rientrare in schemi del tutto ordinari, dandosi così il permesso di giudicare.

Un noto esperimento sociologico americano del 1971 chiarisce esplicitamente come siano le forze situazionali di un evento a rendere i soggetti crudeli, dimostrando quindi che spesso il male va relativizzato, considerato all’interno di una pluralità di cause e concause e che, se inserito in situazioni sociali estranee al soggetto, possono prima sopraffarlo e successivamente eliminare in lui qualsiasi traccia di comportamento etico. Il suddetto esperimento è quello di Philip Zimbardo, che durante lo Stanford Prison Experiment portò alla luce il cosiddetto Lucifer effect, evidenziando una vera e propria trasformazione comportamentale umana. L’esperimento fu così condotto: ventiquattro persone (sottoposte prima a un test psicologico per escludere qualsiasi instabilità psico-mentale) vennero scelte tra una serie più ampia di settanta volontari e successivamente divisi in due gruppi, guardie e prigionieri. Inizialmente organizzato per la durata di quattordici giorni, venne interrotto dai ricercatori solamente al sesto, in quanto le guardie iniziavano già a mostrare chiari segni di attitudine alla perversione sadica e vessazione fisica con scopo di umiliazione, mentre i prigionieri facevano ormai presagire i sintomi di una scissione individuale rispetto alla realtà. Individui insospettabili, che prima rientravano appieno nelle norme della decenza sociale, hanno ceduto nel giro di pochi giorni alla “tentazione al potere e dominio” (P. Zimbardo).

Un simile risultato mostra innegabilmente la tesi che tanti sociologi hanno a lungo cercato di sostenere e che è stata altrettanto ostacolata senza sosta da coloro che ancora si ritengono al di sopra di certi comportamenti, o meglio istinti: chiamarsi fuori dalla natura profondamente umana che caratterizza ciascun individuo. Non a caso Bocchiaro sceglie come enunciato di apertura del suo libro una verità incontestabile, seppur dolorosa, e cioè che “il male non è mai straordinario ed è sempre umano“.

Detto questo, non si intende incoraggiare ogni giustificazione delle altrui scelte discutibili, e talvolta dannose, considerando il soggetto una vittima del contesto sbagliato: piuttosto, occorre considerare molteplici possibili spiegazioni prima di trarre le proprie conclusioni su una vicenda. Le radici del male nascono ben più in profondità di un capriccio, si originano da traumi fisici e psicologici, da abusi, perdita, abbandono, e decine di altre situazioni che solo se vissute possono essere comprese, ma del resto “non c’è niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo” (Fëdor Dostoevskij).

FONTI

Piero Bocchiaro, La psicologia del male, Laterza, Roma-Bari, 2009

 

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