Nel novembre del 2019, il Gambia, piccolo Stato africano, deposita gli atti d’accusa contro il Myanmar presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia. La questione che il Gambia vuole sottoporre ai giudici riguarda il supposto (nel senso di “non ancora giuridicamente tale”) genocidio della popolazione Rhoingya. L’udienza per il Myanmar viene programmata il 10 dicembre 2019, a difendere il Paese asiatico sarà Aung San Suu Kyi, consigliere di Stato. La questione ottiene una grande copertura internazionale, anche per il ruolo svolto dalla ex-attivista dei diritti umani Aung San Suu Kyi nella dittatura militare birmana durata dal 1962 al 2011.
Chi è Aung San Suu Kyi?
Aung San Suu Kyi nasce nel 1945 a Rangoon, Myanmar; il padre è un eroe dell’indipendenza birmana dal Regno Unito mentre la madre è una diplomatica di rilievo. Inizia la sua carriera nell’ambito diplomatico all’interno delle Nazioni Unite, questo la porterà in varie parti del mondo.
Accusata di voler dividere l’esercito, viene posta agli arresti domiciliari. Anche a causa di numerose proroghe, spenderà quindici dei ventun anni tra il 1989 e il 2010 nella propria residenza. Una volta rilasciata, deve aspettare le elezioni del 2015 per ottenere la maggioranza con il suo partito NLD (nel frattempo sciolto e rifondato). Già nel 1990 il suo partito aveva vinto le elezioni, annullate però dalla giunta militare.
Proprio dal 2015 inizia la parabola discendente di Aung San Suu Kyi dal paladina dei diritti umani a politicante ambiziosa. Questo cambiamento porta molte associazioni umanitarie e internazionali a revocarle le onorificenze concesse per il suo impegno. Aung San Suu Kyi è stata inoltre insignita in absentia del Nobel per la pace nel 1991, accettato poi nel 2012.
Chi sono i Rhoingya e perché si parla di genocidio?
Rhoingya è un termine utilizzato per definire una delle minoranze etnico-religiose del Myanmar. Essi vivono nello Stato di Rakhine, sulla costa occidentale del Myanmar. Le prime migrazioni che portarono i musulmani in quella zona furono nel 1430, prima ancora della nascita del Regno Birmano. Durante la fase coloniale britannica, numerosi musulmani bengalesi in cerca di lavoro si fusero con i precedenti coloni musulmani dando vita a quella minoranza che chiamiamo “Rhoingya”.
Sebbene il Myanmar riconosca ben 135 gruppi etnici, i Rhoingya ne sono esclusi e questo li rende migranti illegali e soggetti a qualunque sopruso. La legge sulla cittadinanza, in vigore dal 1982, permette infatti di ottenere la cittadinanza birmana solo a chi fa parte di una “Razza Nazionale” riconosciuta con un apposito documento.
Le operazioni di pulizia etnica, strettamente legate al genocidio, non sono iniziate recentemente ma affliggono il Myanmar sin dalle origini. Alcuni documenti permettono di stabilire che già nel 1962 venivano compiuti atti illegali di ogni genere contro questa popolazione. Le azioni che il governo del Gambia ritiene abbiano dato inizio a un vero e proprio genocidio sono invece quelle iniziate il 9 ottobre del 2016. L’ “Operazione Pulizia” in realtà non è altro che il prosieguo di una vicenda molto più antica di discriminazione e violenza all’interno dello Stato a maggioranza buddista.
Perché proprio il Gambia ha sottoposto questa questione?
La risposta sta nell’affermazione dell’avvocato per i diritti umani Reed Brody alla rivista «Human Rights Watch». Egli si chiede non perché sia stato il Gambia ma per quale motivo non avrebbe dovuto farlo, e la risposta è che non c’è nessuna ragione per cui non avrebbe dovuto. Inoltre, aggiunge che è giusto che non siano sempre i “grandi” del mondo a levare la voce e che anche i più piccoli abbiano un ruolo nella comunità internazionale.
Alcune testate, come «Deutsche Welle», hanno invece accusato il Gambia di essersi posto come “moralmente superiore” e di non aver aiutato la causa dei Rhoingya. Le affermazioni si basano anche sul comportamento dei legali del Gambia che avrebbero fatto riferimento a frasi moralistiche. Una di queste attribuita a Edmund Burke è “La sola cosa necessaria per il trionfo del male e che gli uomini buoni non facciano nulla”. Certamente questa impostazione non è strettamente giuridica ma etica e quindi discutibile; questo non toglie però nulla alla rilevanza delle accuse.
Cosa è successo al tribunale dell’Aia?
Come già detto in precedenza, l’11 novembre il Gambia ha depositato gli atti di accusa con la richiesta di applicare delle misure provvisorie per tamponare la situazione. Il documento, di quarantasei pagine, contiene una lunga e dettagliata lista delle ragioni e dei fatti che hanno spinto il Gambia a presentare il caso alla Corte Internazionale Di Giustizia.
Le udienze si sono svolte il mese successivo dal 10 al 12 di dicembre. Il primo giorno Paul Reichler, rappresentante del Gambia, ha esposto le
Nel suo lungo discorso apologetico, Aung San Suu Kyi si è ben guardata dal menzionare il solo nome dei Rhoingya, negando e respingendo ogni accusa a proposito. Ha inoltre criticato il Gambia per aver fornito una versione fuorviante degli eventi che sono molto più complicati di quanto si possa pensare.
Si è poi soffermata sulle pulsioni indipendentiste che puntano a ridare vita allo Stato di Arakan (altro nome per Rakhine). Con questa affermazione, San Suu Kyi voleva raffigurare i Rhoingya come dei terroristi che minano l’unità dello stato birmano. Il tutto volto a giustificare un’azione militare che, ammette la leader birmana, potrebbe aver causato delle fatalità tra i civili. Insomma, la risposta birmana alle accuse circostanziate del Gambia è stata quella di mettere la testa sotto la sabbia, sperando nell’affievolirsi della pressione internazionale.
Come si evolverà la situazione?
Al termine delle udienze sia il Myanmar che il Gambia hanno presentato delle istanze alla Corte. Il primo vuole che siano ritirate tutte le accuse, mentre il secondo vuole che vengano prese misure di sicurezza.
Le misure del Gambia puntano a impedire la cancellazione delle prove e il proseguimento dell’attività militare e paramilitare nella zona dei Rhoingya. Tutte queste richieste sono contenute sia nell’accusa depositata l’11 novembre sia negli atti conclusivi del 12 dicembre.
La vicenda è molto complessa e richiede uno studio non solo dei fatti ma anche della rilevanza penale di tali fatti. Se il fatto che avvengano terribili violenze non deve essere ulteriormente provato, deve essere però accertato se la definizione di genocidio sia applicabile in questo caso.
I tempi della Corte di Giustizia sono abbastanza lunghi e un verdetto finale non arriverà prima della fine del 2021.
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