Il Piemonte è una regione ambivalente, sfaccettata, enigmatica. Popolata da persone considerate stereotipicamente avulse all’estroversione o persino falsamente cortesi, come dice un vecchio detto. Lievemente delicata con i suoi dialetti che risuonano di francese. Panorami mozzafiato, occhi che si possono perdere tra le morbidezze delle Langhe, le geometrie acute della Mole e quelle pungenti dei monti che danno ombre a molte valli. Terra di miracolo economico degli anni sessanta, di ricchezza e di ricordi monarchici. Ma anche “Terra dura, terra maledetta, ingrata, terra di malora” per chi vive d’agricoltura, tra le cascine e la provincia, luogo in cui si anima “la guerra insensata che gli uomini conducono contro le donne” in quel contesto quasi senza tempo delle colline di Alba. Sono proprio questi i luoghi in cui Alessandro Perissinotto ci accompagna per raccontarci la storia del suo romanzo Il Silenzio della Collina (Mondadori).
Guardò ancora le colline: ci erano voluti i tedeschi per farle apprezzare ai langaroli. Gli inglesi nel Chianti e i tedeschi nelle Langhe, con il loro “marco forte” a comprare le case che quelli del posto lasciavano cadere in rovina, quelle sui bricchi, sulle vette modeste ma inaccessibili di quelle ondulazioni che, in certi angoli, si davano arie da montagne.
C’erano voluti gli stranieri per renderli orgogliosi dei loro vini, per convincerli a farli meglio, ad affinarli, ad amarli.
Domenico Boschis ha cinquant’anni ed è un attore di serie televisive famoso per il suo fascino. Nato nelle Langhe, ma ormai romano d’adozione, dopo molti anni di contatti mancati si ritrova improvvisamente catapultato al capezzale del padre e invischiato nel suo passato. Bartolomeo, Tomè per i compaesani e per tutti coloro che lo hanno conosciuto, è ricoverato in un hospice, solo e condannato ormai alle sue ultime ore di vita (“Era come se tutti quanti avessero un cartellino con la data di scadenza”) per colpa di un tumore al cervello.
I rapporti tra i due Boschis sono persi da tempo; Tomè è il rozzo agricoltore provinciale e retrogado per antonomasia, burbero e attaccato alla “roba” come l’emblematico Mazzarò della novella di Giovanni Verga. Violento e insensibile, verrà lasciato anche da Carla, la madre di Domenico, ormai stanca della ferocia e dei lividi subiti. Carla e Domenico si trasferiscono a Torino da Franco, un uomo moderno e di mentalità aperta che gradualmente assumerà un ruolo genitoriale nei confronti del piccolo Domenico. Sarà proprio il patrigno infatti a supportare il protagonista nelle sue scelte universitarie e nel successivo percorso lavorativo.
«È stato mio padre a farmi chiamare?»
«No, lui ci ha sempre impedito di contattarla.»
«E allora, perché oggi l’avete fatto?»
«Perché lui ha perso conoscenza e noi avevamo l’obbligo di informare un familiare: lei è l’unico.»
Su questo aveva ragione. A dire il vero, c’era anche sua madre, ma lei, con il divorzio, aveva perduto la qualifica di familiare, un figlio invece non cessava di essere figlio, anche quando sentiva di non esserlo mai stato a causa di un “deficit nella funzione paterna”.
Padre e figlio sono dunque due estranei costretti a incrociarsi nuovamente. Nonostante il “deficit paterno” degli anni precedenti, Domenico decide di assistere quell’uomo sonnolento e ormai in difficoltà nell’esprimersi. Tomè non ha ancora perso completamente la lucidità, ma parla poco con suo figlio, preferendo il torpore del sonno o la dolcezza dei budini o del gelato al cioccolato. Alcuni brevi flash sembrano però perseguitare quell’anziano allettato; Tomè ripete più volte a suo modo una parola, un nome molto generico decifrato come “La ragazza”. Un urlo secco, disumano, inquietante che sembra portare con sé il terrore di un tragico oblio.
A poco a poco aveva focalizzato la ragione del suo smarrimento. Era tutto in quella bocca spalancata che non emetteva suoni, in quel pianto senza lacrime e senza singhiozzi. La bocca aperta sulla faccia di suo padre era una smorfia orrenda, era l’urlo di Munch, era un dolore che pareva venire da lontano.
Ma chi è la ragazza? Sarà proprio questo tarlo nella voce di Bartolomeo e nella testa di Domenico a permettere a quest’ultimo di scavare nella propria infanzia e nella vita di un’intera comunità.
Eppure in quello stesso luogo si consuma una tragedia indicibile: una ragazzina di soli tredici anni, Maria Teresa Novara, scompare nel nulla. Verrà ritrovata morta solo sette mesi dopo. Segregata e tenuta legata ad una catena, la piccola era stata abusata e venduta agli uomini della zona mentre i giornali parlavano di fuga d’amore e di una ragazzina dedita al vizio. Quale legame sussiste tra il burbero Tomè e la discesa negli inferi compiuta da suo figlio?
Il Silenzio della Collina diventa dunque la tragica immagine di una provincia torbida, omertosa e priva di valori. Con la sua storia Alessandro Perissinotto riesce a sferrare molteplici pennellate potentissime che straziano il lettore alla chiusura del libro. Un romanzo ricco, per le tematiche trattate e per la complessità dei due personaggi principali. Nonostante la lentezza e l’eccessivo ricorso alle citazioni d’autore (da Kafka a Fenoglio), l’autore non ha paura di far sporcare il lettore in modo originale con i temi della pedofilia e della morte, ma soprattutto con quello della violenza sulle donne.
Non leggiamo infatti solo del tabù del decesso, della morte e di una riscoperta familiare. L’escamotage della cronaca ci fa riflettere sulla concezione della donna, vista come possesso, da usare per l’appagamento sessuale e come sfogo punitivo. Donne al pari degli animali, donne costrette a tacere davanti agli affari e alle problematiche familiari, spinte a mettere in atto negazioni davanti alle scappatelle e ai vizi dei mariti (gioco d’azzardo in primis). Donne prive di libertà, considerate donnacce se emancipate e indipendenti — retaggi culturali purtroppo difficili da scardinare totalmente persino nel 2020.
Alessandro Perissinotto, Il Silenzio della Collina, Mondadori, 2019