Che cos’è la povertà? Digitando questa domanda su un qualsiasi motore di ricerca, la prima definizione che troveremo sarà questa:
Povertà /po·ver·tà/ : Condizione di inferiorità economica (e per lo più anche sociale)
La spiegazione potrà sembrare semplice ed efficace. Possiamo chiudere la schermata e tornare alle nostre mansioni quotidiane come nulla fosse. Eppure, la povertà è un problema. E, come tutti i problemi, ha delle cause scatenanti che troppo spesso ignoriamo.
I livelli di povertà
La povertà è una piaga dalle numerose sfumature. Può essere dunque classificata come povertà estrema o assoluta, individuata dalla Banca mondiale in coloro che vivono con meno di 1,90 dollari statunitensi al giorno: in parole povere, coloro che non possono permettersi le spese minime per condurre una vita accettabile (ovvero i servizi essenziali come casa, salute e vestiario). La povertà moderata o relativa identifica invece coloro che presentano difficoltà economiche nella fruizione di beni e servizi, e vivono con meno di 3,10 dollari al giorno.
In Italia, la povertà assoluta esiste ed è una realtà tragica: 5 milioni di italiani vivono in queste condizioni, secondo i dati Istat del 2018. 9 milioni sono invece coloro che si trovano in povertà relativa. È possibile effettuare un calcolo della soglia di povertà tramite il sito Istat.
Geografia della povertà
Una fondamentale differenza quando si parla di povertà consiste nel luogo in cui ci si trova. Vi è infatti una fortissima discrepanza tra i Paesi a Sviluppo Avanzato (PSA), che si trovano comunemente nel Nord del mondo, e i Paesi in Via di Sviluppo (PVS), che per la stragrande maggioranza sono nel Sud del mondo. L’unica eccezione sono l’Australia e la nuova Zelanda, considerati PSA nonostante la loro collocazione. La definizione Nord/Sud sostituisce quella di “Terzo Mondo” in riferimento ai paesi sottosviluppati: venne elaborata nel 1980 dal politico Willy Brandt ed è oggi ampiamente utilizzata dalle Nazioni Unite. La linea immaginaria che divide i due emisferi è chiamata “Brandt line“.
È vero che la povertà è presente anche nell’emisfero boreale: chiunque, soprattutto se frequenta grandi città, può notare la presenza di clochard a ogni angolo delle strade. Per non parlare della discrepanza tra poveri e ricchissimi, in paesi ad elevato sviluppo economico come gli Stati Uniti, purtroppo in crescita. Tuttavia, la condizione di arretratezza sociale ed economica propria dei paesi del Sud del mondo ha radici più antiche e una portata ben più tragica.
Basti pensare alla durata della vita nei paesi in via di sviluppo: nel Nord del mondo si aggira tra i settanta e gli ottanta anni, nel Sud è invece molto più bassa. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS o WHO, in inglese) risalenti al 2015, la speranza di vita più alta si trova in Giappone (80,3 anni), la più bassa in Sierra Leone (50.1). Questo dato è uno dei principali indicatori di sviluppo di un paese: infatti, nonostante la mortalità sia influenzata da un numero elevatissimo di fattori, importantissimo è quello della qualità della vita, strettamente correlata al grado di povertà. I paesi sottosviluppati non hanno un sistema sanitario adeguato alla cura delle malattie, hanno pessimi sistemi di smaltimento dei rifiuti e delle acque reflue e spesso il livello di igiene in cui le persone vivono è bassissimo (si pensi alle favelas).
Tutto ciò porta alla diffusione di malattie, quali la tubercolosi (nona causa di morte in assoluto, con circa 1,3 milioni di decessi nel 2016), perfettamente curabile e ormai debellata nei paesi sviluppati grazie ai vaccini e ai sistemi di prevenzione. Nel Nord del mondo, la mortalità è infatti prevalentemente influenzata da patologie di tipo degenerativo che intervengono in età avanzata, oppure da modelli comportamentali pericolosi (guida pericolosa, fumo, alcool o droghe).
Come ignorare, poi, la piaga della mortalità infantile e materna, elevatissima nei paesi sottosviluppati? Situazioni tragiche sussistono nell’Africa Sub-Sahariana, dove moltissime donne muoiono durante il parto poiché le strutture sanitarie sono scarse e lontane dai loro luoghi di abitazione, ma anche perché la prevenzione è inadeguata: spesso non vengono effettuate abbastanza visite mediche durante la gravidanza (il minimo dovrebbe essere quattro). Inoltre i bambini, che sono naturalmente più vulnerabili, nei PVS sono sovraesposti ai rischi, tra cui la malnutrizione. Quest’ultima indebolisce il sistema immunitario, rendendoli ancor più soggetti alle malattie.
Nel Sud del mondo vi è dunque un circolo vizioso che si perpetua imperterrito ormai da decenni, nonostante i cali delle morti grazie agli interventi dell’OMS. Ma quali origini ha?
Da dove nasce la povertà?
1492: questo è l’anno che ha portato alla grande discrepanza tra Stati che abbiamo oggi, secondo lo storico e politologo Éric Toussaint. In quella data, Cristoforo Colombo è diventato il padre (inconsapevole) della globalizzazione. Un processo che ha portato popoli totalmente diversi ad incontrarsi, o meglio scontrarsi, fino a creare tra luoghi ai lati opposti della terra un legame mai esistito prima. Tuttavia, quella che si viene a creare è una relazione profondamente impari: l’intervento brutale degli europei, dotati di armi da fuoco, è infatti espressamente rivolto ai danni dei popoli.
Dopo aver scoperto le ricchezze che si nascondono nel Nuovo Continente, i conquistadores non si fanno troppi problemi a sottomettere con violenza le popolazioni che lo abitano. Inizia un meccanismo di espropriazione di terre e schiavizzazione delle persone con un nome ben preciso: colonizzazione. Gli europei portano il proprio sistema legale in luoghi che ne avevano di completamente diversi: così, le terre che non hanno un governo autonomo vengono considerate immediatamente proprietà del primo (europeo) che le occupa. I diritti delle popolazioni locali non sono, pertanto, neppure presi in considerazione.
A causa del conflitto con gli europei, la popolazione originaria americana subisce perdite elevatissime, anche perché è in corso anche una guerra batteriologica: i virus portati dagli europei (in primis il vaiolo) sterminano gran parte degli indios. La strage peggiora quando inizia la tratta degli schiavi africani, perché dall’Africa giungono nuove malattie, quali tifo, morbillo, varicella. Le Americhe si trovano ben presto private di gran parte della loro popolazione originaria.
È fondamentale ricordare che i grandi imperi europei sono esistiti principalmente grazie alle ricchezze importate da questi luoghi. Un caso esemplare è la collina di Cerro Rico, nell’attuale Bolivia. Nel XVI secolo, è il più grande deposito d’argento del mondo, un minerale utilizzato come valuta in tutto il mondo. Gli schiavi neri, costantemente malnutriti, non riescono nemmeno a lavorare in quell’ambiente freddo e duro, senza vedere mai il sole; per questo, viene impiegata la manodopera indigena per l’estrazione dell’argento, in cui era indispensabile una parte di lavoro manuale. Nelle miniere di Cerro Rico i lavoratori muoiono quotidianamente a causa dell’ambiente malsano e dell’impossibilità di uscire dalle gallerie per periodi molto lunghi (anche mesi). Nel frattempo, sorge accanto alla collina la cittadina di Potosì, che diventa in breve tempo una delle più popolate al mondo.
I morti nella miniera continuano ancora oggi, perché i lavoratori operano in un ambiente insalubre, adelevate altitudini. Lo scrittore Eduardo Galeano afferma che, con tutto l’argento estratto nei secoli da Potosì, si sarebbe potuto costruire un ponte dall’America Latina alla Spagna, ma che la stessa cosa si potrebbe fare con le ossa delle persone decedute nelle miniere.
La tragica storia di Potosì è solo un esempio del danno provocato dagli europei ai locali. Le risorse vengono estratte dalle Americhe, ma le ricchezze che se ne ricavano vanno all’Europa: la neonata globalizzazione fa comodo al Vecchio Continente, ma provoca la distruzione delle strutture politiche, sociali, economiche e spesso anche religiose dei paesi sottomessi. L’imposizione di una cultura diversa e una schiavizzazione mentale, oltre che fisica, distruggono completamente le peculiarità delle popolazioni locali. La loro cultura viene persa per sempre.
La decolonizzazione
Dopo secoli di schiavizzazione, a metà del Novecento inizia un processo di decolonizzazione che porta a una non facile indipendenza. La madrepatria sa bene che, perdendo determinati territori, perderà importanti vantaggi economici; perciò, laddove vi sono delle risorse, la strada per la decolonizzazione diventa lunga e tortuosa. Esempi lampanti sono la Guerra dell’Angola (durata dal 1975 al 2002) e la Prima (dal 1996 al 1997) e la Seconda (dal 1998 e il 2003) Guerra del Congo.
Il meccanismo è il seguente: i colonizzati lottano per la propria indipendenza, ma, poiché i confini degli Stati raramente rispettano i desideri di autonomia dei singoli gruppi etnici, nascono nuovi conflitti interni. Inoltre, la tradizione statale è molto debole e le stesse istituzioni democratiche ereditate dal vecchio continente non sono sufficientemente radicate. Tutti questi presupposti portano alla creazione di Paesi con governi instabili che a partire dagli anni Sessanta, con la scomparsa dei grandi leader che avevano guidato il processo di liberazione, spesso sfociano in regimi autoritari.
Queste nuove nazioni sono definite “Terzo mondo” perché tentano di non schierarsi nel grande conflitto internazionale che oppone Stati Uniti e Unione Sovietica. Sono infatti gli anni della Guerra fredda. Nel 1955 si svolge la conferenza afroasiatica di Bandung, che proclama l’eguaglianza fra tutte le nazioni, il sostegno ai movimenti impegnati nella lotta al colonialismo e il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze: nasce così il movimento dei paesi non allineati. Tra questi paesi, però, il denominatore comune è, per quanto riguarda la dimensione economica, il sottosviluppo.
I caratteri del sottosviluppo consistono in carenza di strutture industriali, arretratezza dell’agricoltura e crescente emarginazione nel contesto dell’economia internazionale. È in corso uno storico cambiamento geopolitico; tuttavia, gli Stati del Terzo Mondo entrano nell’economia nazionale con un enorme svantaggio, dovuto all’elevatissima sproporzione esistente tra la quantità di risorse disponibili nel loro paese e le ricchezze di cui il popolo poteva effettivamente avvalersi. Questo perché le risorse vengono sfruttate a vantaggio del capitale estero. È chiaro ormai che l’indipendenza politica delle colonie non corrisponde a quella economica: ecco che si torna al problema della povertà.
Si inizia a parlare di neocolonialismo, perché per sopravvivere i paesi sottosviluppati mantengono un rapporto di dipendenza con le superpotenze, che concedono in cambio un sostegno diplomatico, militare e finanziario. Si diffonde in tal modo la piaga della corruzione, che impoverisce ulteriormente la popolazione delle ex colonie. La netta predominanza economica degli stati occidentali permette loro di sfruttare le risorse dei paesi sottosviluppati tramite la nascita di multinazionali che sottraggono territorio ai residenti locali e impongono la coltivazione di monocolture. Così, troviamo che la più grande esportatrice di caffè è la Germania, sebbene il maggior paese produttore sia il Brasile.
La situazione peggiora con l’introduzione dell’orientamento economico neoliberista, promosso dalla prima ministra inglese Margaret Thatcher e dal presidente USA Ronald Reagan. L’idea di base consiste in un mercato privo di regolamentazione e di autorità pubblica, governato solamente dalle forze di mercato (domanda e offerta), senza alcun intervento da parte dello Stato. Tale modello cambia profondamente lo scenario economico internazionale, perché dà una forte spinta all’impresa e all’iniziativa privata. La Thatcher si fece portatrice di un disegno di riduzione della presenza dello Stato e di lotta all’inflazione come priorità della politica economica.
Questo modello venne applicato a livello internazionale: la Bolivia, per esempio, è considerata un vero e proprio “laboratorio” di applicazione di queste idee. Il caso limite risale agli anni 1999-2001, quando viene approvata la legge che concede al consorzio Agua de Tunari il monopolio di tutte le risorse idriche, inclusa l’acqua usata per irrigare i campi. Il prezzo dell’acqua raddoppia più del 50%, a causa dei costi di rinnovo della rete idrica e le proteste contro la privatizzazione esplodono in tutto il paese, sfociando anche nella morte un giovane di diciassette anni, Victor Hugo Daza. Le vicende boliviane portano tutto il mondo a interrogarsi sul tema dell’acqua come bene pubblico.
Il divario economico oggi
Tutte queste vicende storiche dovrebbero farci capire quanto grande sia stato il peso delle economie occidentali nell’affermarsi della divisione Nord/Sud. È normale, a questo punto, cercare delle scusanti: in primis, quella degli aiuti. Lo ha fatto anche l’economista americano Jeffrey Sachs, illustrando come la frattura tra paesi ricchi e paesi poveri non sia responsabilità di nessuno, e gli aiuti concessi al Terzo Mondo potranno portare, in soli vent’anni, a sradicare la povertà nel mondo. Il libro in cui espone queste idee, “La fine della povertà”, risale al 2005, eppure la situazione, ad oggi, non è poi tanto migliorata.
Seguendo la logica di Sachs, però, si privano gli stati ricchi di ogni responsabilità rispetto al divario economico attualmente esistente. Anzi, si aggiunge benevolenza nel giudizio sul Nord del mondo che, generosamente, concede aiuti agli stati più poveri. Nel 2012 i paesi in via di sviluppo hanno ricevuto poco più di 2.000 miliardi di dollari, compresi tutti gli aiuti, investimenti e redditi dall’estero. Una cifra notevole, se non fosse che, nello stesso anno, circa 5.000 miliardi di dollari siano stati inviati dai paesi del Sud verso il resto del mondo, seguendo moltissimi percorsi.
Ad esempio, tramite i pagamenti degli interessi sul debito (per la maggior parte relativi a crediti rimborsati già da molto tempo): dal 1980, i PVS hanno sborsato oltre 4.200 miliardi di dollari, molto più di quanto abbiano ricevuto in aiuti nello stesso periodo. Oppure grazie al reddito che gli stranieri incassano dai loro investimenti nei paesi poveri: tutto denaro che, successivamente, ritorna in patria. Così, non solo le multinazionali occupano ingenti territori (spesso i più produttivi) togliendoli ai residenti, ma questi ultimi nemmeno possono comprare, nella stragrande maggioranza dei casi, i loro prodotti, perché questi vengono inviati all’estero. Ciò accade, ad esempio, in Kenya, dove le compagnie statunitensi sono spesso in accordo con il governo locale, e dove la corruzione dilaga a macchia d’olio. Infine, le fughe di capitali hanno la maggiore responsabilità: la Global Financial Integrity calcola che, a causa di queste, dal 1980 i PVS hanno perso complessivamente 23.600 miliardi di dollari.
È necessario dunque riconoscere che attualmente sono i paesi poveri a finanziare il Nord del mondo: è uno scambio ineguale. Complici dei governi occidentali sono state le organizzazioni internazionali, soprattutto il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, considerate una diretta emanazione degli interessi delle economie più avanzate. Forse è il caso di interrogarci sul nostro stile di vita: è normale che l’1% della popolazione consumi il 32% delle risorse? Per cambiare questo ingiusto sistema, è innanzitutto necessaria una presa di consapevolezza delle reali ragioni del divario economico tra Nord e Sud. Non giustifichiamoci con gli ausili inviati dai nostri governi, ma partiamo con l’informarci adeguatamente. Solo dopo aver compreso questa dura verità sarà possibile agire per un cambiamento.
A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Nuovi profili storici 3: dal 1900 a oggi, edizioni Laterza, Roma-Bari 2018
M. Bergaglio, La popolazione, Guerini scientifica, Milano 2018