La migrazione è una realtà che si offre a una profonda e consapevole trasposizione in pittura. Non a caso, già numerosi artisti italiani di fine Ottocento l’hanno affrontata, trasponendovi un’analisi storica e personale. Negli ultimi decenni del XIX secolo, fu il Verismo, infatti, a documentare le disuguaglianze e le miserie dell’Italia post unitaria attraverso vere e proprie opere di denuncia sociale. Così l’arte, ancora una volta, dimostra di saper dare voce alla sua epoca. Perché ha la capacità di raccontare, attraverso prospettive diverse, l’esodo interiore ed esteriore degli esseri umani, la fuga di milioni di persone, uomini, donne, bambini, anziani in cerca di un futuro migliore e di una pace risanatrice.
Ecco, dunque, come cinque artisti internazionali, figli di tempi e luoghi diversi, hanno voluto trattare questo tema nell’arte con la pittura, la scultura, la fotografia e la video arte.
Angiolo Tommasi: la migrazione come precarietà
Il pittore livornese Angiolo Tommasi (1858- 1923), nel suo dipinto, Gli Emigranti(1896) ha rappresentato le paure e le speranze di tanti nostri connazionali. Tommasi dipinge così un porto di mare e l’attesa di una folla in partenza per l’oltreoceano. Sul fondo le navi, simbolo pregnante di un futuro sospeso, irraggiungibile. In primo piano affiorano invece contadini, commercianti, artigiani. I loro sono volti scavati dalla fame, su una banchina gremita di attese.
Ma non è solo una folla indistinta, perché l’autore traduce i sentimenti collettivi in quattro icone tipologiche femminili. A cominciare da una donna pensierosa, che sorregge il capo con la sua mano, mentre un’altra allatta il proprio bambino. Un’altra ancora, invece, si accarezza il ventre e infine, un’anziana signora fissa la corona del rosario che scivola fra le sue dita. Tutte queste figure evocano così precarietà, speranza, fame, passato e futuro. E questa raccolta di emozioni vive nell’attesa comunitaria.
Bruno Catalano: la migrazione come mancanza
La serie di sculture del francese Bruno Catalano – colate in bronzo e modellate con l’argilla – prende invece il nome di Les Voyageurs, collocate sul perimetro del porto di Marsiglia. Questa collezione di statue lascia completamente sbigottito l’osservatore, che pur percependo il vuoto realizza la figura, dove il significante tocca il significato. E dal porto arriva chiaro il messaggio, incentrato sul viaggio, come dice lo stesso titolo della serie. Un viaggio di emigranti che dilania, un percorso non cercato, ma dovuto a causa delle circostanze della vita.
Il viaggio di chi lascia nella propria terra di partenza un pezzo di sé. Gli occhi non sono felici, lo sguardo è rivolto verso un orizzonte incerto e incompleto, la mano stringe la valigia, quasi rappresentasse tutta la vita, tutto ciò che si possiede. Il vedere attraverso le figure lacerate è uno scorgere insieme a loro orizzonti, vicoli ciechi, piazze e strade percorribili. I soggetti sono uomini e donne dal passo stanco, che portano con sé un bagaglio metaforicamente pesante, che camminano per la città o aspettano seduti su di una panchina l’arrivo di un mezzo. Le opere, così immerse nello spazio pubblico, dialogano con il tessuto urbano e con il paesaggio come persone vere.
Quando la migrazione è l’unica scelta
Sono molti gli artisti che, a causa di guerre e persecuzioni, hanno dovuto lasciare il proprio Paese per cercare protezione in un Paese straniero e che hanno raccontato il mondo dei migranti a partire dalla propria esperienza personale. Tra questi figurano Adrian Paci e Rabee Kiwan. I loro sono mondi lontani che abbracciano biografie diverse, l’una albanese, l’altra siriana.
Adrian Paci: la migrazione come incertezza
Le opere di Adrian Paci spaziano dalla pittura al video, dalla fotografia alla scultura. Cambiano le forme, i supporti, le espressioni, ma le migrazioni sono il tratto caratteristico delle sue narrazioni.
Attraverso opere di video-arte, Paci comincia a catturare il transito. Nel video Centro di Permanenza Temporanea, infatti, un gruppo di persone attraversa lentamente la pista d’atterraggio di un aeroporto, per salire sulla scaletta che conduce all’ingresso dell’aereo. La telecamera inquadra in successione i passi e i volti di questa processione fatta di uomini e donne. Indifferenza, attesa, preoccupazione sono le emozioni che li accompagnano. Dietro di loro il nulla. Che cosa guardano? Dove sono diretti?
Rabee Kiwan
L’artista siriano Rabee Kiwan, di fronte all’esodo dei suoi connazionali (lui stesso si è rifugiato in Libano) riflette sull’identità personale e su quella di un popolo, come il suo, che subisce la guerra. In Passport photo l’artista dipinge così una serie di fototessere e di timbri, ricostruendo il particolare rapporto che ogni rifugiato ha con i propri documenti.
Ritratti anonimi, sfigurati, simili a passaporti sgualciti. Le fototessere sui documenti, sui passaporti rivelano un duplice messaggio. “Sono quello che ci identifica nei confronti degli altri e senza i quali non esistiamo” scriveva Joseph Roth negli anni Trenta. Allo stesso tempo sono ciò che testimonia un’appartenenza collettiva ad un popolo, a una nazione. Senza non si è nessuno e non si appartiene a nessun Paese, nessuna terra.
Ai Weiwei: l’arte per i rifugiati
Ai Weiwei, uno degli artisti più globali e mediatici del terzo millennio, dal 2015 ha deciso di mettere la sua arte a servizio dei rifugiati, affrontando in vario modo il difficile tema del dramma dei migranti forzati. Ha avuto rapporti controversi con il suo Paese, la Cina, dove è stato anche in prigione per 81 giorni. E, nonostante ormai gli sia permesso girare in ogni angolo del mondo, è costantemente tenuto sotto osservazione. Le sue opere hanno un chiaro carattere di denuncia di quanto milioni di persone stanno vivendo nel mondo.
Per questo tutte queste opere non possono lasciarci indifferenti e aprono una riflessione sempre attuale sul viaggio, la fuga, la paura e le speranze di chi combatte tutti i giorni.
FONTI: