Dalle origini alla Seconda Guerra Mondiale
La Papua Occidentale si trova sull’isola della Nuova Guinea ed è la seconda isola più grande al mondo. È parte dell’Indonesia e confina con la Papua Nuova Guinea, la quale occupa la parte orientale dell’isola. I suoi abitanti sono in prevalenza Melanesiani, anche se l’immigrazione indonesiana a partire dalla fine degli anni Sessanta è stata notevole.
I primi europei a passare di lì furono gli spagnoli che diedero il nome di Nuova Guinea all’isola per la somiglianza con gli abitanti della Guinea in Africa. Passarono anche i portoghesi che però non si fermarono sull’isola ma si stabilirono a Timor Est. I primi a installare un avamposto furono invece gli olandesi nel 1828 che fondarono Fort du Bus.
Questi territori non furono mai parte delle Indie Olandesi (l’odierna Indonesia) perché amministrate dai Paesi Bassi tramite delega al sultano di Tidore. Olandesi e Britannici si accordarono poi sulla spartizione dell’isola in due aree di influenza: una olandese e una anglo-tedesca (la futura Papua Nuova Guinea). I primi rilievi geologici, iniziati nel 1907, diedero inoltre una prima idea delle risorse naturali contenute nel sottosuolo.
L’occupazione straniera però non fu passivamente accettata e sorsero numerosissimi gruppi, secolari e millenaristici, che si opposero, anche militarmente, ai colonizzatori. Gli olandesi vennero scacciati dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale, e a loro volta essi furono scacciati dagli olandesi. I Paesi Bassi, che non avevano mai amministrato direttamente il territorio in precedenza, mostrarono a quel punto, forse anche a causa dei rilievi geologici fatti dagli americani che avevano liberato l’isola dai Giapponesi, un certo interesse.
Dal mandato olandese all’annessione indonesiana
Con la fine della guerra, i Paesi Bassi spinsero con forza per l’indipendenza del territorio, basandosi sul principio dell’autodeterminazione dei popoli. Ovviamente, lungi dall’essere interessati alla libertà dei papuani, avevano scoperto le risorse nascoste dell’isola. Ai quei tempi infatti la Royal Dutch Shell era una delle “Sette Sorelle”, ben note al defunto Enrico Mattei, ovvero una delle maggiori compagnie petrolifere del mondo.
Tuttavia, oltre alle necessità olandesi c’erano quelle della neonata Indonesia di Sukarno. Egli, infatti, insieme ad alcuni alleati come Mohammad Yamin, sosteneva che l’isola spettasse di diritto all’Indonesia in quanto ex colonia olandese. A questa linea si opponeva invece il poi vice-presidente Mohamed Hatta che però dovette adeguarsi alla voce imperante.
Ovviamente, il ruolo determinante lo giocarono gli USA, sia tramite l’ONU che direttamente. Inizialmente, il supporto statunitense era per gli indonesiani, in nome dell’autodeterminazione dei popoli. Quando negli anni Cinquanta però le relazioni tra Usa e Indonesia si deteriorano a causa di azioni militari Usa in territorio indonesiano, gli Stati Uniti si avvicinarono alle posizioni olandesi.
In risposta a ciò, l’Indonesia decise di avvicinarsi al Blocco Sovietico per acquisti militari e supporto politico, suscitando timore negli USA che si affrettarono a cambiare posizione. Fu con l’arrivo alla presidenza di Kennedy che la fobia di un’Indonesia comunista ebbe il sopravvento. Gli olandesi dovettero cedere e firmare l’accordo di New York nel 1962. La Papua Occidentale, dopo un periodo intermedio di amministrazione fiduciaria dell’ONU (UNTEA), sarebbe passata in mani Indonesiane. In cambio, essi avrebbero dovuto tenere un referendum sull’autodeterminazione dei papuani non più tardi del 1969.
Il dominio indonesiano e il referendum
La presa di potere di Suharto velocizzò il processo referendario a cui Sukarno si era opposto. L’Indonesia deteneva già l’amministrazione della Papua Occidentale dal 1963 e aveva dispiegato numerosi contingenti militari nella zona.
Sin da subito gli indonesiani si mossero per proibire i partiti locali e la bandiera nazionale con la Stella del Mattino. Ebbe inizio quindi la deriva illiberale con leggi bavaglio e metodi dittatoriali, ben documentati dai papuani e resi ora disponibili sul web. In risposta, si formarono dei gruppi di resistenza, come ai tempi del dominio olandese.
L’atto di libera scelta, come era definito il referendum nell’accordo di New York, venne quindi fissato per il 1969. L’ONU inviò il boliviano Ortis Sanz ad assistere, privo tuttavia di alcun potere effettivo. Questo referendum incarnò perfettamente la farsa organizzata da Stati Uniti e Indonesia, la falsità dell’autodeterminazione dei popoli e la totale inutilità dell’ONU nelle scelte di rilievo.
Per fugare ogni possibilità di evento regolare, venne deciso che il voto sarebbe spettato a solamente 1200 anziani, secondo antiche tradizioni locali (forse l’unica volta in cui i costumi sono stati rispettati). Sorprendentemente, di questi 1200 individui tutti furono a favore della permanenza in Indonesia. Questo è probabilmente dovuto alle convincenti lusinghe degli ufficiali indonesiani, in particolare Ali Murtopo, brigadiere generale a capo delle truppe dell’area.
La popolazione locale non era infatti considerata abbastanza civilizzata per sostenere un referendum a suffragio universale e nemmeno misto, come proposto dagli emissari ONU. In ogni caso, l’Indonesia aveva ottenuto il suo obiettivo di assicurarsi una miniera d’oro. Del resto, già dal 1965 la compagnia anglo-americana Freeport era sbarcata sull’isola, pronta ad aprire quella che oggi è la più grande miniera d’oro e la seconda di rame al mondo: la Grasberg mine.
Benny Wenda e la causa papuana nel mondo
Nato nel 1974 in un piccolo villaggio nel bel mezzo delle montagne papuane, Benny Wenda appartiene alla etnia Lani (conosciuta anche come Dani) e rappresenta, attraverso la sua organizzazione United Liberation Movement for West Papua, la voce più internazionale della causa della Papua Occidentale.
La sua infanzia fu segnata dalle violenze dell’esercito indonesiano nei confronti degli abitanti del suo villaggio, soprattutto dele donne, vittime di violenza. Alla morte della nonna, la famiglia di Wenda, che era l’ultima rimasta a vivere nella foresta, decise di arrendersi e di presentarsi al posto di controllo. Tuttavia, per essere accettati nella comunità era necessario presentarsi con una bandiera indonesiana, come atto di sottomissione.
Wenda seguì poi il percorso scolastico classico indonesiano, non imparando nulla riguardo le sue origini ma diventando vittima di attacchi razzisti. Fu solo con l’arrivo all’università che incominciò a interessarsi alla questione di Papua, anche grazie alla caduta del regime di Suharto nel 1998. Fino a quel momento infatti la censura aveva proibito ogni riferimento a quella spina nel fianco indonesiano; anche solo menzionare il nome Papua poteva creare problemi: il nome ufficiale era Irian Jaya.
In seguito all’indipendenza di Timor Est, Wenda partecipò attivamente alla “primavera” papuana che si protrasse fino al 2000. La caduta del regime di Suharto permise inoltre di intavolare trattative tra il PDP (Presidio del Consiglio Papuano) e lo stato indonesiano, a cui Benny Wenda presenziò. Le elezioni del 2001 e l’assassinio di alcuni rappresentanti del PDP posero fine a ogni possibilità di trattativa. In seguito al tristemente noto “Incidente di Abepura”, che vide la morte di militari e di membri della polizia indonesiana e portò a raid punitivi contro studenti papuani, venne poi arrestato, per la seconda volta, perché considerato come pianificatore della sommossa iniziale.
Il timore di un ingiusto processo spinse i suoi collaboratori a farlo evadere dal carcere, espatriandolo nel Regno Unito nel 2002. Dal 2003 si è riunito con la famiglia; ha anche ricevuto una nomina a Nobel per la pace e un’onorificenza dalla città di Oxford. Dall’Europa continua a sostenere il referendum per l’indipendenza.
Papuan Lives Matter?
Proprio in questa giorni, la figlia di Benny Wenda ha portato la causa della Papua Occidentale a un evento di Black Lives Matter a Oxford al grido di “Free West Papua”. Nel video la giovane racconta delle somiglianze tra l’esperienza papuana di violenza e razzismo e quella dei neri negli Stati Uniti, cercando di attirare attenzione su questo tema. Quello che Koteka Wenda cerca di sottolineare è che il problema è globale e non locale e quindi l’azione deve essere altrettanto globale.
In un articolo apparso sul «The Jakarta Post», l’autore analizza la questione del movimento “Papuan Lives Matter”, mostrando anche un altro aspetto. Dal testo traspare come in
Ovviamente, il problema va cercato più a fondo di questo dettaglio estetico (che comunque è molto interessante) e si differenzia anche dall’esperienza dei neri americani. A differenza delle proteste negli Usa, in Papua Occidentale ci sono in gioco interessi geopolitici di valore inestimabile: i papuani vogliono l’indipendenza e hanno una loro propria (ricchissima) nazione che hanno sempre abitato. Il loro sogno è quindi la fine di un regime discriminatorio e coloniale che sfrutta le risorse ignorando i cittadini e privandoli delle risorse del loro territorio.
Le violenze perpetrate dalle autorità indonesiane sono documentate e ci sono anche stime spaventose del numero di morti tra i Papuani durante il dominio indonesiano. Tuttavia, i gruppi indipendentistici, rivoluzionari o in favore del referendum, saranno lasciati da soli finché gli Usa e i suoi alleati avranno interessi nell’area.