Giorgia Pagliuca, conosciuta su Instagram come “ggalaska”, è una ragazza di ventidue anni che sul suo account tratta diverse tematiche. Le principali sono quelle legate all’ambiente, ai diritti e all’attualità. Si definisce una ragazza a cui piace molto chiacchierare e che non riesce a stare zitta di fronte alle ingiustizie. Ecco perché spesso non esita a scontrarsi anche contro aziende piuttosto conosciute del mercato mondiale. Oltre alla sua pagina Instagram, Giorgia possiede un blog dove pubblica frequentemente articoli incentrati principalmente su tematiche ambientali.
Come hai iniziato a trattare argomenti di attualità e a “dispensare consigli non richiesti”? il tuo percorso di studi ha influito?
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Ho iniziato in maniera del tutto spontanea, ho seguito la mia personalità: non riesco mai a stare zitta. Di conseguenza, la mia personalità è sbarcata sul mio principale canale social, Instagram. Notando alcune cose che non mi piacevano, ho iniziato a parlarne in maniera quasi non voluta, ho assecondato un po’ un mio bisogno. Per quanto riguarda il mio percorso di studi, questo e la mia personalità si sono influenzati vicendevolmente. Il mio percorso di studi è prevalentemente umanistico, quindi chiaramente ha molto a che fare con la comunicazione. Non è una comunicazione troppo incentrata sui social media, almeno per il momento, ma ho studiato comunicazione interculturale come triennale. Diciamo quindi che c’è un lato umanistico che ha a che fare con il dialogo e la comunicazione con l’altro.
In un post su Instagram hai affermato che clima, produzione alimentare e diritti sono correlati. Potresti spiegare questa tua affermazione alla luce dei recenti avvenimenti che hanno sconvolto il mondo?
Io credo che i fatti che riguardano la società siano correlati tra loro: noi influenziamo la società e la società influenza noi. L’economia quindi non è altro che un prodotto di tutto questo. Il Covid-19, e non lo dico solo io, è frutto della globalizzazione, soprattutto dell’iperglobalizzazione. Questa ha chiaramente portato con sé dei benefici: indubbiamente la vita che conduciamo generalmente in Occidente non è una vita di stenti. Però ha comunque portato delle conseguenze rilevanti per quanto riguarda clima, produzione alimentare e industriale, e soprattutto per quanto riguarda i diritti dei lavoratori. Per esempio: l’Italia è tra i primi produttori di pomodoro insieme alla Spagna, però siamo arrivati qui perché paghiamo pochissimo i braccianti, perché non riconosciamo loro alcun diritto, perché li facciamo lavorare anche 17 ore sotto il sole cocente del Tavoliere. Quindi non credo che una persona possa parlare di clima, di diritti, di società senza tener conto di tutto il resto, senza vedere questi legami, queste influenze che determinano la nascita di un fenomeno o di una problematica.
Qualcuno ti ha addirittura definita “naziambientalista”. Cosa ne pensi del disinteresse di molte persone nei confronti di tematiche ambientali (e non solo)?
Innanzitutto devo dire che quando ho ricevuto questo “insulto” ci sono rimasta male, perché abbiamo la tendenza a utilizzare il termine “nazi” o “fascio” a sproposito ultimamente. Soprattutto, associare il nazismo alla situazione ambientale, o alla dieta vegana, mi sembra assurdo; lo trovo un paragone azzardato. Quello che noto è un disinteresse generalizzato per quanto riguarda la situazione ambientale. Questo perché non è percepita come una vera emergenza. Infatti si cerca sempre di utilizzare, più che il termine “crisi” climatica, “emergenza”. Perché “crisi climatica” è legata a una questione teorica, quasi economica: pensando a crisi ci viene in mente la crisi economica. Emergenza climatica invece ci trasmette l’idea di qualcosa che è effettivamente vicina e che ci coinvolge, che ha delle conseguenze nella vita di ognuno di noi. La cosa che mi dispiace è che quando si parla di crisi climatica si pensa sempre al Polo Nord, agli orsi polari, alla Siberia. Ma in realtà la crisi climatica la possiamo percepire anche nella nostra vita di tutti i giorni, anche in Europa e in Italia. Mi dispiace che quelli che “combattono” per l’ambiente siano percepiti come persone che vogliono esclusivamente salvare gli orsi polari, quando in realtà parliamo di problemi che riguardano tutti.
Hai spesso toccato argomenti delicati anche criticando colossi del mercato internazionale. Ritieni che portare esempi concreti e tanto vicini alla nostra quotidianità possa dare una scossa più significativa?
Direi che lo faccio per due motivi. Il primo motivo è per rispondere ad un’esigenza da parte di chi ascolta. Se parliamo in termini generali probabilmente arriviamo a pochi e sembra sempre di parlare di teoria e mai di pratica. Significa quindi tradurre in termini di acquisto: che cosa acquisto per non subire e far subire le logiche del caporalato, per esempio? È la risposta ad un’esigenza sul lato pratico. L’altro motivo è anche un lato provocatorio. Parlare di brand così importanti come Eurospin, McDonald’s, Coca Cola, significa toccare sul vivo e “colpevolizzare” chi ha sempre usufruito di quei servizi e prodotti e continua a farlo. Anche per quanto riguarda il greenwashing e il mercato della moda: Zara e H&M lavorano bene sul piano della comunicazione e del marketing, ma sul piano ambientale e dei diritti dei lavoratori, no. Vengono prodotte pochissime collezioni green, e il resto dell’industria continua a inquinare e sfruttare i suoi lavoratori. Bisogna sempre chiedersi perché lo fanno: sfruttano forse la questione ambientale? Ovviamente le persone sono anche invogliate dal prezzo. È impensabile pagare un cappotto 500 euro piuttosto che 50. La domanda che poi bisogna farsi però è: davvero ho bisogno di un altro cappotto?
Nell’era del consumismo e della ricerca del prezzo al ribasso, quali consigli ti senti di dare a chi vorrebbe avvicinarsi a slow fashion e slow eating?
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Per quanto riguarda il mondo slow fashion, il consiglio che do sempre è: non acquistare. Ma smettere di acquistare nel senso di farsi molte più domande al momento dell’acquisto. In questo momento potremmo fare un cambio di stagione e acquistare nuovi abiti. Siamo nell’era del consumismo, ci siamo spinti ad acquistare costantemente, ad avere sempre bisogno di un nuovo acquisto, di un nuovo capo di abbigliamento. Quindi appena c’è il cambio di stagione ci precipitiamo nei negozi a cercare indumenti a prezzi stracciati. Ma ne abbiamo davvero bisogno? Non ci basta lo shopping che abbiamo fatto l’anno scorso? Alla fine si cresce poco da un anno all’altro dopo una certa età, a parte casi particolari. C’è poi un altro ragionamento che deriva da questa prima risposta: se tu hai smesso di acquistare, hai molti più soldi da parte, dato che lo slow fashion costa di più. Il consiglio che mi sento di dare, in particolare in questo momento, è puntare sullo slow fashion italiano. Per quanto riguarda lo slow eating, il discorso è più complesso: non sta avvenendo una rivoluzione per quanto riguarda il cibo, la risposta è più graduale. Le etichette parlano, ma bisogna anche comprenderne il linguaggio e soprattutto mettere il consumatore nelle condizioni di comprenderlo. È più facile sapere dov’è stato prodotto un certo abito, ma non dove viene prodotta una certa pasta, per esempio. Slow eating per me significa anche spesa lenta, ovvero prendersi il proprio tempo per fare la spesa. Se compro di fretta non leggo e compro solo in base al prezzo, il che è sconveniente, soprattutto per quanto riguarda il cibo.
Cosa ne pensi del movimento Black Lives Matter?
Purtroppo non è ben chiaro a tutti che cosa sia il movimento, come e perché sia nato. Innanzitutto nasce negli Stati Uniti, sebbene sia un movimento internazionale. Questo nasce come rivolta a fenomeni sociali tipicamente statunitensi che hanno a che fare con un razzismo istituzionale e sistemico. Le proteste che ci sono state nelle ultime settimane in Europa sono state un esempio di civiltà. Era impossibile non indignarsi di fronte ai video di violenza condivisi online. Però c’è anche da dire che noi europei, prima di poter commentare fenomeni sociali come quelli del razzismo statunitense, dovremmo prendere coscienza del nostro passato coloniale. Cosa che non avviene. Circa il 30% degli italiani apprezza il valore di quel passato, quando in realtà non sarebbe da condonare, ma da condannare. Un’altra cosa che ci tengo sia chiara è che il Black Lives Matter è un movimento statunitense che è diventato transoceanico soprattutto grazie all’influenza culturale degli Stati Uniti. Influenza esercitata soprattutto nei confronti dell’Europa: se un fatto accade negli Stati Uniti, assume una rilevanza dal punto di vista culturale di un certo spessore. Condannare quello che è successo negli Stati Uniti è doveroso, ma secondo me dovremmo prendere anche coscienza del nostro passato coloniale, e anche del nostro presente. Gli atti razzisti in Europa o in Italia infatti esistono, sono ben presenti, ma non ci scandalizzano così tanto come quando avvengono negli Stati Uniti.
Intervista a Giorgia Pagliuca