Vico e il linguaggio (parte 2)

Nello scorso articolo abbiamo iniziato a riflettere sul rapporto tra ingenium di un popolo e linguaggio che emerge dalla lettura di Vico. Ecco qui la seconda parte della riflessione.

L’importanza dell’elemento religioso nell’esperienza vichiana

C’è allora da chiedersi: come avvenne il passaggio dalla fase mutola al parlare che ci contraddistingue? Tralasciando le tesi vichiane secondo cui le prime lingue articolate sarebbero iniziate con il canto[1] e sarebbero incominciate da monosillabi[2] (tesi molto suggestive, ma che non abbiamo modo di approfondire in questa sede), vorrei porre l’attenzione sulle tre età narrate nella Scienza Nuova. Vico si riallaccia alla credenza degli antichi Egizi, secondo i quali, dall’umanità postdiluviana, scaturirono tre epoche: degli dei, degli eroi e degli uomini. A queste tre epoche corrispondono tre diverse lingue, ma anche tre diversi contesti socio-culturali e regimi politici.

La prima età, quella degli dei, è quella in cui il campo del discorso si riconduceva all’esperienza del sacro. Una lingua, dunque, quasi completamente muta, priva di articolazioni. Nella seconda età, quella degli eroi, si assiste invece ad un equilibrio fra l’elemento visivo e quello fonico. La terza età, quella degli uomini, è infine caratterizzata da un rinnovato squilibrio, in favore, questa volta, dell’elemento fonico anziché di quello visivo. Gli studiosi di Vico si sono da sempre interrogati su come dover intendere queste tre età: si tratta di momenti cronologicamente distinti o piuttosto di tre modi possibili di usufruire del linguaggio?

È la seconda ipotesi quella che sembra più sensata: le tre età sono da interpretare come possibilità espressive. Il linguaggio è un fenomeno complesso, fatto tanto di segni verbali quanto di segni non verbali, motivo per cui non è pensabile una netta suddivisione in fasi, soprattutto non in fasi così drasticamente differenti: ogni processo evolutivo è continuo e graduale, non immediato, né può cancellare o dimenticare il proprio passato. È lo stesso Vico a suggerirci di intendere le tre fasi (e le tre lingue) come simultanee, in quei paragrafi del testo dedicati al dizionario mentale[3].

Proseguendo sulla stessa strada, anche qualora si ammettesse la nascita contemporanea delle tre lingue, non si può fare a meno di notare la distanza incolmabile fra la prima lingua e le ultime due. In effetti, per troppi secoli, la critica su Vico ha battuto il tasto sull’esclusione dell’elemento fonico-sonoro nel costituirsi del linguaggio all’interno della narrazione della Scienza Nuova.

Affermare che il primo linguaggio sia mutolo e non fonico rende immediato e intuitivo il rapporto di referenza fra oggetti e modo di indicarli. Il gesto ci appare come un significante intuitivo, al contrario delle parole, che siamo abituati a pensare come frutto di una convenzione[4]. È importante mantenere il focus sul fatto che non si tratta di chiarire in che modo un essere umano inizia a parlare in un ambiente di parlanti, i quali già si avvalgono, seguendo il ragionamento, delle stesse convenzioni nate chissà quando e chissà come: quando, come in questo caso, si deve capire in che modo l’umanità tout-court iniziò a parlare, di domande ne sorgono molte.

Se seguiamo la linea di pensiero di Vico e ammettiamo che il parlare dei primi uomini fu poetico (tenendo bene a mente la particolare sfumatura del termine poetico che abbiamo individuato qualche paragrafo sopra), non possiamo non considerare il ruolo svolto dall’elemento metaforico. L’utilizzo delle metafore viene esplicitato da Vico soprattutto nella fase eroica:

La seconda (lingua) si parlò per imprese eroiche, o sia per somiglianze, comparazioni, immagini, metafore e naturali descrizioni, che fanno il maggior corpo della lingua eroica, che si truova essersi parlata nel tempo in cui regnavano gli eroi”.

D’altra parte, non si può nemmeno trascurare che “tal poesia incominciò in essi divina”.[5] Questi primi uomini erano come fanciulli[6], “criatori”: se Dio crea spinto dal suo “purissimo intendimento”, questi uomini-bestioni creano “per la loro robusta ignoranza […], in forza d’una corpolentissima fantasia”. Per questo, spiega Vico, furono detti poeti[7].

Vico

La vita di questi giganti venne però turbata da quello che interpretarono come un messaggio divino: quando il cielo “folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi”, questi “avvertirono il cielo”. È la prima esperienza del Giove fulminante. Come però nota giustamente Andrea Sangiacomo[8]:

Affinché si interpreti il cielo come una divinità che parla, occorre infatti che la mente sia predisposta a pensare secondo lo schema del significante-significato a sua volta presupposto da quel parlare: occorre cioè che sia possibile pensare qualcosa di appartenente al mondo come rimando a qualcos’altro.

La divinità che i bestioni identificano in quel segno, non si identifica totalmente in quel segno: è un procedimento metaforizzante (quasi una sineddoche: il fulmine è Giove). La metaforizzazione è un fenomeno dominante dal punto di vista cognitivo, dal momento che permette i processi associativi, passando attraverso un’espansione semantica. È grazie a questa capacità mentale che possiamo organizzare il pensiero in forme via via più astratte.

Ad ogni modo, ho trovato brillante l’intuizione di Sangiacomo riguardo all’errore di chi vuole a tutti i costi vedere nel messaggio di Giove vichiano un segno semioticamente inteso. Questa interpretazione trascura completamente il contesto religioso in cui l’autore stesso vuole collocare l’episodio. Per dirla con le parole di Castellani:

Gli dei e gli uomini comunicano: questo è il sacro[9].

L’esperienza originaria del linguaggio, per Vico, ha una connotazione essenzialmente religiosa. I bestioni, di certo, non possono capire ciò che Dio dice in modo immediato. La comprensione viene in un momento successivo, “quando si proietteranno sul passato le categorie necessarie a comprendere l’esperienza originaria[10].

Un’esperienza religiosa della quale i bestioni non hanno ancora piena cognizione: situazione che genera angoscia, angoscia di una situazione sconosciuta, eppure avvertita in modo quasi istintivo come “più grande”. Un’angoscia che gli uomini patiscono (pathos), alla quale non possono sottrarsi, l’angoscia di chi patisce senza intendere: l’inizio della comunicazione. Non c’è armonia, non c’è comprensione o pace nella vita di questi uomini originari: soli, incompresi, imprigionati in loro stessi, impossibilitati nel chiedere aiuto. La parola sorge da un evento traumatico, tanto che appare come una fuga.

Per concludere, azzarderei una mia interpretazione: la parola sembrerebbe nascere dal voler superare insieme un evento sì traumatico, ma che, al contempo, ha simpateticamente intrecciato i destini degli uomini. Un segno divino, o forse semplicemente interpretato come tale, suscita una stessa passione in esseri che, prima di allora, non avevano nessun elemento comune da cui poter iniziare a instaurare un tentativo di comunicazione.

Si sa che spesso aver condiviso una stessa angoscia, dolore o paura è il modo migliore per cercare una via di comunicazione con l’altro e superare insieme qualcosa di traumatico. Nel dolore ci riconosciamo simili perché sentiamo il bisogno di qualcuno che ci aiuti ad emergere dalle tenebre, sentendoci impossibilitati ad uscirne da soli.

Conclusione

Come scrisse Enzo Paci in Ingens Sylva:

Il caso di Vico è simile al caso di Platone. Capirlo è quasi sempre tradirlo e il rischio è sempre quello di impoverire l’inesauribile fecondità dell’opera. Interpretare Vico non è possibile se non ponendosi di nuovo e da capo tutto il problema della filosofia.

Un autore, forse, troppo lungimirante persino per noi.

 

 

NOTE

[1] Degnità LVIII – LIX

[2] Degnità LX.

[3] Per leggere il modo in cui Vico descrive le tre età e quindi le tre lingue, rinvio alle pagine dedicate alla Spiegazione dell’Opera (nella versione sopra citata, pag. 112-113)

[4] “La terza fu la lingua umana per voci convenute da’ popoli, della quale sono assoluti signori i popoli” pag.113.

[5] SN, pag. 262.

[6] Parallelo con i fanciulli che Vico aveva stabilito anche in Degnità XXXVII.

[7] Ποιέω, dal greco, “fare”. Vico ricorda anche i tre compiti della poesia: “ritrovare favole sublimi, perturbare all’eccesso e insegnare il volgo a virtuosamente operare”

[8] A. Sangiacomo, Vico e la vocalità del linguaggio nella storia della critica, 2009.

[9] C. Castellani, Dalla cronologia alla metafisica della mente. Saggio su Vico, Il Mulino, Bologna, 1995.

[10] Sangiacomo, ivi.


 

FONTI
Tutte le fonti sono state citate nelle note, per rendere immediata l’individuazione dei riferimenti bibliografici.

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