L’intellettuale che seppe oltrepassare le volontà nazionalistiche che minavano la sana ricerca, in nome di una riflessione tanto lungimirante da non essere mai stata capita abbastanza
Giambattista Vico. Un autore troppo spesso sottovalutato, eppure fondamentale. Autore di svariati testi, estremamente affascinanti, è noto principalmente per il suo capolavoro: la Scienza Nuova (versione definitiva del 1744). Per raccontare di tutta quest’opera, non basterebbero centinaia di articoli. Proponiamo qui degli articoli che vogliono mettere in luce un aspetto particolare: Vico e l’origine del linguaggio, a partire dal modo in cui la questione del linguaggio venne gestita nell’epoca dei sempre più crescenti nazionalismi. Vi auguriamo una buona lettura, e, in quanto autrice dell’articolo, mi scuso anticipatamente per aver espresso, di tanto in tanto, il mio pensiero: quando si tratta di questioni così complicate, è inevitabile interiorizzarle maturandone un’opinione.
Introduzione
Nell’Ottocento è passato ormai un secolo dalla pubblicazione della Scienza Nuova di Vico. È allora che Jules Michelet, in Discorso sul sistema di Vico, afferma che quella di Vico è un’opera troppo avanti rispetto ai tempi. Se i suoi contemporanei non seppero apprezzarla, spiega, tale indifferenza è dovuta ad una sorprendente lungimiranza dell’autore. Un’opera inattuale, troppo avanti rispetto all’epoca che le diede la pubblicazione. A volte, il tempo corre, ma la mente corre di più. Del resto, anche un filosofo della portata di Nietzsche[1] si trova ad ammettere che l’inattualità rispetto ai tempi è quasi un segno distintivo di chi fa filosofia.
In una lettera all’amico Bernardo Maria Giacco, Vico si lamenta proprio di non aver ricevuto alcun riscontro o parere sulla propria opera, tanto da sembrargli di “averla mandata al diserto”. Nonostante ciò, proseguendo nella lettura della stessa lettera, si evince quanto Vico fosse soddisfatto del proprio lavoro:
Perché da quest’opera io mi sento avere vestito un nuovo huomo […], quest’opera mi ha informato di uno certo spirito eroico, per lo quale non mi perturba alcuno timore di morte[2].
Vico, del resto, era abituato fin da piccolo a non adeguarsi ai suoi contemporanei: proprio all’inizio della sua autobiografia narra di una vicenda scolastica trascorsa un passo avanti i suoi colleghi. Nella sua patria, si sentiva “straniero”[3]. L’atopia del filosofo, ormai, non ci stupisce: inaugurata da Socrate fin dall’Apologia, non è altro che il segno distintivo di una grande mente.
Sull’opera di Vico non si sarà mai detto abbastanza. Avrei qui piacere di riflettere su due aspetti che ho trovato particolarmente interessanti. Il primo si inserisce nel dibattito contemporaneo a Vico, ed è la sua posizione sul legame tra la lingua e l’identità storico-culturale di un popolo. Il secondo è invece una tematica quasi “di nicchia” rispetto agli studi che mi sono trovata a leggere, e proprio per questo mi ha incuriosita: quanto conta, in Vico, la relazione tra il linguaggio e il pathos religioso?
La lingua e il genio di un popolo: Vico oltre i nazionalismi
Tutto ha inizio quando Jean-Dominique Bouhours[4], nelle Entretiens d’Ariste et d’Eugène (1761), sostiene la superiorità della lingua (e quindi, del genio) francese sulle altre lingue europee, che vengono da lui messe alla berlina: l’inglese “fischia”, il tedesco “raglia”, l’italiano “sospira”. Il francese, invece, sarebbe l’unica lingua adatta a qualsiasi contesto, soprattutto perché, a differenza dell’italiano, non si avvale di acutezze e di innaturali inversioni e figure retoriche, che non solo sono dannose per la lingua, ma minano l’accesso alla verità[5]. È ben chiara la contrapposizione fra l’espirit francese e l’ingenium latino: esiti diversi di uno stesso concetto adattatosi ad antitetici climi intellettuali.
La risposta italiana tardò ad arrivare, ma, alla fine, arrivò. L’intellettuale Giovan Gioseffo Orsi[6] difese l’italiano distinguendone l’uso stilistico, in cui le acutezze rappresentano una diversa modalità di accesso alla verità, e la solida fisionomia interna. A difendere l’italiano, ponendosi sulla stessa via aperta da Orsi, giunse poi in soccorso anche Ludovico Antonio Muratori[7] con l’opera Della perfetta poesia italiana (1706)[8]. Nel capitolo IX del secondo tomo dell’opera, provocatoriamente sottotitolato “Si difende la lingua italiana dalle opposizioni di un certo scrittore di dialoghi”, Muratori sostiene che qualora capiti che un testo in una determinata lingua sia pregno di sofismi, si tratta di un “difetto degli ingegni, non delle lingue”, in quanto la lingua è “lo strumento con cui si spiegano (…) gl’interni concetti”.
Questo retroscena di tentativi nazionalistici di affermare la propria lingua (e quindi il proprio popolo) sulle altre è il clima culturale che fa da sfondo alle riflessioni vichiane. Fin dalla prima e dalla seconda delle sue Degnità (Scienza Nuova), Vico si mostra titubante nei confronti di chi decanta la magnificenza delle proprie origini[9]: la critica è rivolta, fin da subito, a tutti quei miti che narrano di un’età “aurea” dell’antichità.
Vico sostiene che ci sia un nesso fra l’evoluzione della lingua e l’ingenium di un popolo[10], benché sia indispensabile tenere a mente il difficile significato che Vico attribuisce alla nozione di ingenium, che potremmo qui sintetizzare come l’incontro fra le basi biologiche dell’uomo, le condizioni climatiche e ambientali e il ruolo dell’individuo in un determinato contesto socio-culturale[11]. La lingua, insomma, è lo specchio in cui emergono riflesse le differenze culturali e le peculiarità dei parlanti. Ma c’è di più: al contrario di Muratori, per il quale le lingue sono solo uno strumento per esprimere i concetti della mente, con Vico si afferma l’idea secondo cui siano proprio le lingue a condizionare il pensiero, anziché limitarsi ad esprimerlo. Il linguaggio, per dirlo con le parole di Zagarella, non ha “solo una funzione comunicativa, ma un’imprescindibile funzione cognitiva”[12]. Comunicazione e cognizione instaurano dunque una interrelazione continua e reciproca, alimentandosi vicendevolmente.
Qui si situa la discoverta vichiana: i primi uomini furono poeti.
[…] I primi popoli della gentilità, per una dimostrata necessità di natura, furon poeti, i quali parlarono per caratteri poetici; la qual discoverta, ch’è la chiara maestra di questa Scienza[13].
Cosa si situa alla base della necessità del parlare poetico? Due fattori:
Povertà di parlari e necessità di spiegarsi e farsi intendere[14].
Come spiega Vico nelle righe immediatamente successive, fu grazie a questi due fattori che “l’evidenza della favella eroica” poté soppiantare “la favella mutola per atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee che si volevan significare”.
Vico, nella sezione Della Metafisica poetica, narra che i primi uomini furono tutt’altro che perfetti: “stupidi, insensati ed orribili bestioni”, “di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie”, ebbero una “loro propria poesia, nata da ignoranza di cagioni”.
Notiamo la genialità e anche la pragmaticità realistica di Vico, che consiste nel porre all’inizio della storia una condizione di bestialità rozza ed ignorante, deviando dalla millenaria tradizione della “sapienza riposta”, come anche dalla perfezione precedente l’episodio babelico. Questi bestioni, non razionali e trasportati dai sensi, non ragionavano, come siamo soliti fare noi, in modo astratto, ma in modo “poetico”[15]. Con poetico Vico non intende riferirsi ad un modo di parlare che è il prodotto di un’operazione intellettuale elevata: tutt’altro. Il parlare poetico vichiano è quello che affonda le radici nel corpo, è una poesia non estetica, ma finalizzata a comprendere e spiegare il mondo in assenza di una modalità di comunicazione universalmente condivisa. Non a caso, la fase fonica del linguaggio è preceduta da una fase mutola, nella quale è fondamentale la relazione tra corpo e linguaggio, appunto: “per cenni o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee ch’essi volevano significare”.
Come procede il pensiero vichiano e in quale luce andrebbe letto? Lo scopriremo nel prossimo articolo.
NOTE
[1] Friedrich Nietzsche, Considerazioni Inattuali.
[2] Giambattista Vico, Epistole, pag. XLI-XLII. Le epistole sono consultabili sul web: http://www.ispf-lab.cnr.it/system/files/ispf_lab/documenti/vico_epistole_I.pdf
[3] Giambattista Vico, Vita, pag. 1-5. Consultabile a: http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_7/t205.pdf
[4] (Parigi, 1628 – Ivi, 1702), fu un gesuita che si occupò della lingua francese, studiandone grammatica e retorica. Dai suoi scritti scaturì la polemica italo-francese (la querelle Orsi-Bouhours) sulla superiorità tra le due lingue, letterature, culture.
[5] Fra gli scritti di Bouhours è da segnalare soprattutto La manière de bien penser dans les ouvrages d’espirit (1687).
[6] Nelle Considerazioni sopra un famoso libro franzese intitolato La manière de bien penser dans les ouvrages d’espirit (1703). Orsi (Bologna, 1652 – Modena, 1733) è noto perché nel contesto dell’Arcadia bolognese cominciò a delineare un progetto di replica alle critiche rivolte dai francesi alla letteratura italiana, accusata di retoricismo e barocchismo dal gesuita Dominique Bouhours. Le Considerazioni constano di sette dialoghi, pubblicati anonimi dopo la morte di Bouhours.
[7] (Modena, 1672 – Ivi, 1750), prese parte alla Querelle e fu amico di Orsi.
[8] L’opera è consultabile online all’indirizzo: file:///C:/Users/esmer/Documents/UNI/Filosofia%20del%20linguaggio%202019-20%20(Gensini)/tesina%20su%20Vico/Della_perfetta_poesia_italiana%20tomo%20II.pdf
[9] Vico, Scienza Nuova 1744, Rizzoli, Milano 1977; Libro I parte II “Degli Elementi”, Degnità I-II (pag.173-174).
[10] Come nota T. De Mauro nell’articolo Giambattista Vico. Dalla retorica allo storicismo linguistico, 1968, fin dai tempi del De nostri temporis studiorum ratione Vico inizia ad individuare un tenue legame tra vita civile e patrimonio linguistico. L’articolo è consultabile qui: http://www.fondazionepiovani.it/materiali-online/miscellanea-vichiane/misc_vich_I_4_12_A/4/#zoom=z
[11] Per una trattazione più ampia e dettagliata della nozione di ingenium, rimando a S. Gensini, Ingenium e linguaggio, Note sul contesto storico-teorico di un nesso vichiano, 1995.
[12] Rimando al saggio di R. M. Zagarella, Le tre spezie di lingue nella Scienza Nuova di Vico: interpretazione diacronica e funzionale, 2009.
[13] SN pag. 114.
[14] SN pag. 115.
[15] R.M. Zagarella, ibidem, pag. 22-23.
Tutte le fonti sono state citate nelle note, per rendere immediata l’individuazione dei riferimenti bibliografici.