Skam Italia è una di quelle serie tv che quando finiscono lasciano un vuoto e, mentre la pancia dice che ne vorrebbe ancora e ancora, con stagioni che si susseguono all’infinito, il cervello razionalizza e dice che forse va bene così, perché le storie funzionano un po’ come gli elastici, e ad allungarle troppo si rischia che la tensione si smolli. Il fatto strano però è che di solito non sono le serie come Skam a fare questo effetto. Perché si tratta di un remake (e spesso i remake italiani vandalizzano gli originali da cui provengono). E perché appartiene a un genere – il teen drama – che talvolta si accontenta di essere un banale diversivo per gli adolescenti e una passione segreta per gli adulti.
Skam è un progetto a sé, difficilmente paragonabile ad altre serie tv rivolte agli spettatori più giovani. Il suo successo non ruota attorno a grandi proclami, esagerazioni provocatorie e interpreti poco credibili ma molto idolatrabili. Skam parte da un concetto assai più semplice: osservare e ascoltare gli adolescenti di oggi per poi raccontarli così come sono, utilizzando una struttura (cioè delle brevi clip rilasciate ogni giorno in streaming e poi raccolte in un unico episodio settimanale) intrecciata alle loro abitudini di fruizione.
Descritta così, Skam Italia potrebbe sembrare una serie vuota. Per capire davvero il perché si tratti di una delle migliori produzioni italiane bisogna guardarla. Il suo pregio infatti dall’esterno quasi non si vede, perché sta perlopiù nell’umiltà. Quella del regista e sceneggiatore Ludovico Bessegato, soprattutto, che insieme a Cross Productions ha maneggiato con cura il prodotto originale (nato in Norvegia nel 2015), senza cedere alla smania molto diffusa di piegarlo al proprio punto di vista. Bessegato – cosa rara e importante – si è ricordato prima di tutto di essere stato un adolescente; poi – cosa ancora più importante – davanti a ogni potenziale lacuna ha fatto un passo indietro, affidandosi a chi avrebbe potuto colmarla meglio di lui, fossero i ragazzi del cast, quelli del pubblico oppure persone che avessero vissuto alcune delle esperienze e delle tematiche che la serie affronta.
Il risultato è così realistico che quasi ci si dimentica che sia finzione. I personaggi sono invece così interessanti e tridimensionali da poter muovere tutti identificazione. Indipendentemente dal ruolo che occupano nella serie (ogni stagione si concentra su protagonista diverso, ma nel frattempo anche il resto del gruppo si evolve), sembra di avere davanti prima di tutto delle persone.
Tra i normalissimi liceali romani di Skam Italia c’è Eva (Ludovica Martino), che prende voti mediocri e a volte s’ingarbuglia nelle sue insicurezze; c’è Martino (Federico Cesari), che tra gli archetipi gay non riesce a capire dove collocarsi; c’è Eleonora (Benedetta Gargari), che è più adulta degli altri perché è cresciuta da sola; e c’è Sana (Beatrice Bruschi), che ha una risposta per tutto, tranne che per le proprie domande.
Ciascuno di loro ha un problema che non lo fa star bene, ma non esterna per paura del giudizio degli altri (“skam” infatti significa vergogna). Eppure nessuno viene etichettato e percepito come un’eccezione. Volendo, ci si potrebbe identificare anche in Sana, che è musulmana, ma risalta per la sua personalità, ancora prima che per il velo che indossa. Soltanto nella quarta stagione (da poco uscita su TIMvision e Netflix, che si è aggiunta alla produzione salvandola dalla cancellazione), Skam fa emergere il suo sentirsi divisa tra la fede e la libertà che la sua età esige. Ma si tratta comunque di una crisi adolescenziale, uno di quei normali momenti di passaggio necessari a trovare la propria identità. La religione e il sentirsi diversa sono piuttosto un veicolo attraverso cui esprimerla.
Sana s’innamora, vive di incomprensioni, entra in conflitto con amici e genitori (che per proteggerla preferirebbero non portasse il velo), e cerca risposte su Google come il resto dei personaggi. E se da un lato soffre il pregiudizio verso il mondo musulmano che l’Occidente non ha ancora superato dall’11 settembre di quasi vent’anni fa, dall’altro tende a proiettarlo su di sé con un’ombra più grande di quella effettiva.
Il suo non è il percorso di un archetipo, di un personaggio preso da una di quelle categorie che servono a far sembrare più inclusiva una serie tv. Il suo è un percorso multisfaccettato, singolare e pure arricchente per chi lo guarda. S’impara ad esempio che portare il velo può anche essere una scelta femminista, ma sulla cosa non si interpellano mai le donne; e che esistono campi dove i giovani musulmani pregano, organizzano corsi e ogni tanto cazzeggiano un po’ come all’oratorio feriale.
Non ci sono però didascaliche finestre informative: solo dialoghi (o messaggi vocali) autentici e anche più stratificati rispetto alla serie originale. Ludovico Bessegato li ha tracciati insieme alla sociologa musulmana Sumaya Abdel Qader, dialogando anche con le figlie adolescenti. Così, alla stranezza del vedere una diciottenne di oggi appartarsi durante una festa per pregare o chiedersi se il ragazzo che le piace sia già quello giusto da sposare, Skam fornisce prontamente una spiegazione concreta.
Certo, non ci si aspetta che in una manciata di episodi Skam Italia rivoluzioni il discorso sull’integrazione. D’altro canto, la serie stessa non millanta di voler convertire, per dire, il pensiero di coloro che hanno disprezzato pubblicamente Silvia Romano. Con molta umiltà, però, Skam racconta storie con una base reale e fornisce strumenti per capire meglio le persone che le vivono. Empatizzando, infatti, si è più disposti a comprenderne le scelte, anziché giudicarle.
La normalizzazione, in Skam Italia, passa attraverso i dettagli più silenziosi, i gesti più comuni, gli interrogativi più spontanei, senza paura di risultare banale. “Noi tante cose non le sappiamo perché nessuno ce le spiega”, dice Martino a Sana, che interpreta come razziste le osservazioni sciocche delle amiche sulla sua religione. “Ma se vogliamo far capire le nostre differenze, dobbiamo dare risposte intelligenti alle domande stupide”.
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