L’Open Innovation è un concetto ancora quasi sconosciuto, sia nel mondo accademico che aziendale, tuttavia di recente sta acquisendo sempre maggiore interesse, dimostrando il suo potenziale nella pratica industriale.
Il settore pubblico non è esente dal suo fascino: si pensi al citizen sourcing, introdotto da Hilgers e Ihl come esempio di una democrazia collaborativa. Sono vere e proprie politiche la cui efficacia proviene dall’apertura, dagli investimenti per incitare la partecipazione di tutti gli stakeholder: essenza dei Tre Open (Open Innovation, Open Science e Open to the World). Non stupisce l’interesse europeo, che ha riconosciuto che:
il modo in cui la scienza funziona sta cambiando radicalmente, e una trasformazione altrettanto importante sta avvenendo nel modo in cui le aziende e le società innovano. L’avvento delle tecnologie digitali sta rendendo la scienza e l’innovazione più aperte, collaborative e globali.
Il mondo è nato aperto. Come ricordò Zweig nei suoi studi, i 50 anni che hanno preceduto il 1914 non hanno previsto confini. Ciò che ha seguito gli anni successivi alle due Guerre Mondiali, è stata l’affermazione di un forte divario tra le regioni del mondo. E seppure da una parte si sono affermati leader nei mercati dell’ICT, della digitalizzazione, la restante parte del sistema non ne ha goduto gli sviluppi, non prendendone parte. La mancata diffusione ha nutrito così la disuguaglianza economica, i cui costi per il sistema si sono dimostrati enormi perché tradotti in risorse sprecate, talento sprecato e potenziale sprecato.
L’ascesa dell’Open Innovation si deve perciò ricollegare allo scenario attuale. La mobilità dei lavoratori è alta, le Università sono capaci di realizzare sinergie con altre aziende, aprendo le porte alle industrie. L’egemonia degli Stati Uniti è ormai in declino, e l’ascesa dell’ICT è tale da insidiarsi in tutti i settori. Tuttavia, c’è un limite a questa storia: l’incertezza. Vi è incertezza sul reale impatto, sulla crescita delle innovazioni, in termini di dimensioni e direzione. Un’ambiguità a cui gli economisti non sono stati indifferenti. Come ha illustrato Robert Solow, l’era dei computer è ovunque, eccezione fatta per le statistiche di produttività. L’incertezza è legata ai contesti, alle tendenze attuali, come le tecnologie emergenti possano incoraggiare e promuovere il benessere. Un sentimento che si amplifica negli anni, data l’accelerazione dei tempi nella progettazione e produzione di nuove tecnologie.
La storia dell’Open Innovation
Seppur divenuto da poco il paradigma dell’innovazione, la sua origine risale a quasi 20 anni fa. Era infatti il 2003 quando Chesbrough, economista americano e Faculty Director del Garwood Center for Corporte Innovation, pubblicò Open Innovation: il nuovo imperativo per la creazione e il profitto della tecnologia. Lo studio portava a galla gli effetti più rilevanti della globalizzazione, come il rincaro dei processi di sviluppo e il rischio sottostante. La closed innovation, un’innovazione chiusa nei confini dell’impresa, può dimostrarsi in un ostacolo, frutto del timore, quello di perdere la proprietà sul know-how acquisita. Solo nel 2014 egli definì insieme a Bogers la tematica di open innovation così:
un processo di innovazione distribuito basato su flussi di conoscenza gestiti intenzionalmente oltre i confini dell’organizzazione.
Non tutti lavorano per te
Nonostante sia già passato un quarto di secolo, l’open innovation fatica ad affermarsi. La sua implementazione si scontra con l’incapacità da parte delle aziende di comprendere pienamente l’efficacia dello strumento. Le aziende non possono più presumere di essere competitive, restando rinchiuse nel loro recinto: diventa necessario utilizzare idee esterne e comunicare con altri per far avanzare le innovazioni. Può essere una grande opportunità per le aziende, fondamentale per le piccole e medie imprese, (PMI). La collaborazione per un rinnovamento delle strutture e dei prodotti può diventare più efficace. Ma non è un processo immediato, si necessita innanzitutto di un rinnovamento delle strutture interne, in termini di business model e di pensiero. Infatti, non si parla solo di accedere, ma di concedere idee all’esterno, che se fatto senza cognizione di causa può essere solo deleterio verso il sistema aziendale. Bisogna mantenere valore.
Per essere precisi bisogna infatti distinguere due differenti tipologie di open innovation: outside-in e inside-out. La prima consiste nell’aprire i processi di innovazione di un’azienda a molti tipi di input e contributi esterni. Questa ha ricevuto la massima attenzione, sia nella ricerca accademica che nella pratica del settore, perché non è solo la più facile da implementare, ma la più nota. Si pensi alla Citizen Science Project attuata dalla NASA, un’attività scientifica condotta da membri del pubblico indistinto in collaborazione con scienziati o sotto la direzione di scienziati professionisti e istituzioni scientifiche.
Ma come può affermarsi l’Open Innovation?
Sperimentandone le potenzialità e opportunità. E ciò si dimostra con le attività e i tentativi rintracciabili da diverse realtà accademiche, politiche ed aziendali.
Rilevante a riguardo è l’iniziativa del Garwood Center for Corporate Innovation della Haas School of Business di UC Berkeley, che nel 2014 ha lanciato un nuovo modo di fare conferenza. L’intenzione alla base era esplicita: riunire le migliori menti, gli studiosi dell’innovazione accademica e i professionisti dell’innovazione del settore. Il Worl Open Innovation Conference è stato cosi inaugurato a Napa Valley, con studiosi quali David Teece e Ikujiro Nonaka, e manager di organizzazioni innovative quali NASA e Intel. Ma a rappresentare un ottimo risultato è stata la seconda edizione, tenuta nella Silicon Valley, a cui hanno partecipato 164 personalità, provenienti da differenti settori: metà dal mondo accademico e metà dalle realtà industriali.
FONTI
Open innovation: research, practices, and policies M Bogers, H Chesbrough, C Moedas California management review 60 (2), 5-16
F. Meulman, I. Reymen, K. Podoynitsyna, and A. G. L. Romme, “Searching for Partners in Open Innovation Settings: How to Overcome the Constraints of Local Search,” California Management Review, 60/2 (Winter 2018): 71-97.