Commissariamento di un anno per la società Uber Italy srl, la succursale italiana del gigante americano. Questa è la decisione presa dal Tribunale di Milano, che poggia su una solida base: accusa di caporalato. a farne le spese sarebbero i rider, vale a dire le persone addette alla consegna dei cibi ordinati mediante l’applicazione Uber Eats. Si tratta di un reato non nuovo al contesto italiano, anche se prima di questo commissariamento i settori maggiormente colpiti erano l’agricoltura e l’edilizia.
La filiale italiana avrebbe utilizzato società di intermediazione per quanto riguarda l’assunzione di manodopera, approfittando della situazione svantaggiata (umanamente ed economicamente) di coloro che provengono da contesti di guerra, dai richiedenti asilo e da chi vive in centri di accoglienza. Se il reato sarà accertato avrà conseguenze sia per il datore di lavoro in questione, in tal caso Uber, sia per le società intermediarie (Flash Road City e FRC srl) che si sono occupate di fornire manodopera a basso costo.
Il nuovo (vecchio) caporalato
L’azione emessa dal tribunale milanese è accompagnata anche da testimonianze dei diretti interessati. Uno degli addetti afferma che la sua paga era di tre euro per ogni consegna effettuata, senza differenza di giorno o orario. Oltre a un problema di retribuzione, i giudici all’interno del carteggio menzionano anche una sorta di “sottrazione legalizzata delle mance” e punizioni economiche per i rider nel caso di proteste.
È la prima volta che si giunge al commissariamento, ma non è l’unica volta in cui Uber Eats è finito nella bufera (come era accaduto nel settembre 2019) per quanto riguarda le accuse di sfruttamento del personale e delle tutele quasi inesistenti. A oggi la situazione si è aggravata con l’esplosione dell’emergenza sanitaria e il conseguente lockdown. Nei giorni di chiusura totale è aumentato esponenzialmente il numero di clienti dell’app, causando un’ondata di assunzioni e reclutamenti privi di ogni controllo.
La replica di Uber Eats
La società ha risposto all’azione del Tribunale pubblicando una nota. In essa condanna ogni forma di caporalato e auspica a lavorare per un lungo periodo in territorio italiano: “Uber Eats ha messo la propria piattaforma a disposizione di utenti, ristoranti e corrieri negli ultimi quattro anni in Italia nel pieno rispetto di tutte le normative locali. Condanniamo ogni forma di caporalato attraverso i nostri servizi in Italia”.
Si suppone perciò che rientri nel “pieno rispetto di tutte le normative locali” il contratto, riportato come prova tra le carte del Tribunale. Scritto a mano, la dicitura “contratto di lavoro occasionale” appare al centro del foglio. Esso garantisce tre euro netti a consegna e prevede il pagamento di ottanta euro a fronte di perdita e/o rottura della borsa di lavoro, gentilmente fornita dalla ditta.
Chi indagare?
Il problema però, uno dei tanti quantomeno, è chi effettivamente ritenere responsabile delle politiche adottate. Nel carteggio a firma del Tribunale (giudici Veronica Tallarida e Ilario Pontani, Presidente di sezione Fabio Roia) si legge chiaramente come il provvedimento non sia da intendere come misura repressiva ma preventiva. Tra le righe si può intuire come l’impresa Uber sia considerata in sé sana, però infiltrata da una o più persone riconducibili ad attività poco lecite.
Non la pensano allo stesso modo gli attuali indagati, i gestori delle due società d’intermediazione sopra citate. Affermano infatti di aver sempre rispettato le indicazioni settimanali provenienti dalla sede centrale. Un estratto di quanto affermato: “Più e più volte ci siamo lamentati con Uber affinchè aumentassero il valore delle consegne, ma è stato inutile, anzi, nel corso del tempo tale tariffa è sempre più diminuita in tutte le città“.
Scavando all’interno della società e dei rapporti che ha con giganti del settore alimentare come Mc Donald’s o Burger King si scoprono accordi quantomeno strani. In primis è importante dire che, secondo chi è attualmente indagato, Uber obbliga all’apertura di una società terza incaricata del trasporto di alcuni grandi fast food. Questo perché, per esempio Mc Donald’s, rappresenta da solo quasi il 70% del fatturato totale di Uber. Ed è proprio questo colosso mondiale a pretendere la sottoscrizione di particolari polizze assicurative. Una, dal valore massimale di cinque milioni, riguarda la possibilità di cautelarsi a fronte di attacchi terroristici causati dal rider; un’altra, con massimale due milioni, riguarda invece la responsabilità civile.