L’epidemia da coronavirus (SARS-CoV-2) negli Stati Uniti uccide più persone nere che bianche. La colpa è del razzismo. Cosa significa affrontare una pandemia per gli afroamericani? Qual è l’impatto di un’emergenza sanitaria sulle persone costrette a vivere in una società già ostile nei loro confronti?
Cosa dicono le percentuali
Più di 100.000 persone negli Stati Uniti sono morte per il coronavirus. Calcolare con esattezza il numero di contagi e morti per gruppo etnico non è possibile, perché non tutti gli Stati registrano l’etnia di appartenenza dei pazienti. Sulla base dei dati di quaranta stati americani emerge comunque un’innegabile disparità sul coronavirus: in percentuale, i morti di SARS-CoV-2 afroamericani sono tre volte di più rispetto alla popolazione bianca. Come riportato dall’APM Research Lab, se le percentuali fossero state le stesse delle persone bianche, negli Stati Uniti sarebbero ancora in vita 300 persone asiatiche, 1300 persone latinoamericane e ben 13000 persone afroamericane.
Restare a casa è un lusso per pochi
Praticare il distanziamento sociale, evitare assembramenti, lavorare da casa e in generale uscire di casa solo se è necessario. Le misure di sicurezza per combattere un virus di cui non esiste cura sono le stesse il tutto il mondo, ma non tutti possono praticarle con la stessa facilità. Per i lavoratori essenziali lo smartworking non è una soluzione possibile, e negli USA sono proprio gli afroamericani a svolgere gran parte di questi incarichi. A questo fattore se ne aggiungono molti altri, tra cui la condizione diffusa di dover condividere appartamenti poco spaziosi con altre persone e la necessità di utilizzare i mezzi di trasporto pubblico per recarsi a lavoro. Tutte situazioni in cui mantenere il distanziamento sociale per proteggersi dal contagio è quasi impossibile, a cui si aggiungono le difficoltà ad accedere all’assistenza sanitaria e una generale insicurezza economica.
Proteggersi dal coronavirus è un privilegio bianco, e il governo di Trump non risponde adeguatamente alla crisi, anzi, le dichiarazioni di Trump degli ultimi mesi non hanno fatto altro che diffondere informazioni false, inesatte o addirittura pericolose sul coronavirus. Sono nate dunque tante organizzazioni di volontari che si occupano di procurare beni di prima necessità ad anziani e persone immunodepresse che non possono uscire di casa, cucire e distribuire mascherine, raccogliere fondi e tenere in piedi l’economia locale acquistando dai negozianti del quartiere. Ma le disparità rimangono.
“Non è l’obesità, è lo schiavismo”
La disparità colpisce tutte le minoranze etniche, ma è particolarmente grave per gli afroamericani. L’interpretazione più accreditata dai media e dalle istituzioni per spiegare questa disparità è l’idea che i neri siano più spesso gravemente obesi, dunque maggiormente vulnerabili ad altre patologie.
Ma, come fa notare Sabrina Strings per il New York Times, l’obesità colpisce il 42.2% degli americani bianchi e il 49.6% di afroamericani. Com’è possibile che uno scarto percentuale così lieve possa giustificare che i neri a morire per il nuovo coronavirus siano in media tre volte di più (in alcuni Stati la percentuale arriva anche al 700%).
La vera causa è culturale e ha forti radici storiche. La storia afroamericana è densa di soprusi e la situazione attuale deriva inevitabilmente da secoli di schiavismo, seguiti dalle incarcerazioni di massa del dopoguerra. Insomma, la causa è il razzismo, e ancora meglio il cosiddetto razzismo sistemico, cioè istituzionalizzato, che ha reso le comunità afroamericane estremamente fragili, protagoniste di discriminazioni strutturali quotidiane.
La morte di George Floyd
In questo clima di scontento, la notizia della morte di George Floyd, un buttafuori americano di quarantasei anni che lavorava in un ristorante a Minneapolis, nel Minnesota, ha ricordato a tutto il mondo la sproporzione nell’uso della forza da parte delle forze di polizia statunitensi, che colpisce in modo sistematico le persone nere. George Floyd è stato ucciso da un poliziotto bianco che ha esercitato il suo potere nella maniera più ingiusta possibile. L’uomo è diventato, suo malgrado, il nuovo simbolo del movimento Black Lives Matter: sono scoppiate proteste e marce di solidarietà a livello globale, che negli USA sono sfociate in razzie e scontri violenti tra manifestanti e polizia.
Il caso di George Floyd non ha niente di nuovo né di diverso da ciò che la comunità afroamericana deve affrontare quotidianamente. Anzi, la sua morte è spaventosamente simile a quella di Eric Garner, ucciso per soffocamento nel 2014 mentre veniva arrestato. A dare così tanta risonanza mediatica alla sua vicenda è stato sicuramente il video della sua morte, che è diventato virale nei social e ha sottoposto allo sguardo di tutti, in tutto il mondo, l’entità del sopruso e la violenza di cui è capace la polizia americana.
“I can’t breathe”, non riesco a respirare
Chiaramente, per far incendiare in questo modo una protesta è molto utile concentrarsi su un caso eclatante, documentato e che non lascia spazio a interpretazioni. È importante però ricordare che, aldilà dello slogan “I can’t breathe”, frase emblematica pronunciata sia da Floyd che da Garner sei anni prima, si tratta di una questione molto più complessa, in cui gli afroamericani tendono a ricevere pene molto più dure a parità di crimine, mentre i crimini commessi nei loro confronti vengono considerati meno gravi, soprattutto quando i colpevoli sono le forze dell’ordine.
I protestanti chiedono giustizia per tante altre vittime della police brutality e del razzismo sistemico, come Breonna Taylor, soccorritrice di ventisei anni uccisa il 13 marzo, in Kentucky, da un gruppo di poliziotti che hanno fatto irruzione nel suo appartamento per scovare un traffico di sostanze stupefacenti inesistente, o come Ahmaud Arbery, ucciso da due uomini bianchi il 23 febbraio, a venticinque anni, mentre faceva jogging.
Infine, un esempio meno grave, capace però di mettere in luce la consapevolezza diffusa tra gli americani del rapporto tra afroamericani e polizia: Christian Cooper, afroamericano, si trovava a Central Park a New York, dove ha chiesto a una donna di legare il suo cane al guinzaglio, come da regolamento. La donna, bianca, ha deciso di reagire telefonando alla polizia per dire che un uomo afroamericano la stesse minacciando, sapendo perfettamente che un’affermazione simile potesse significare una vera e propria condanna a morte per l’uomo. Fortunatamente, Cooper ha prontamente filmato l’accaduto, e il video mostra che i due fossero ben distanti e che l’unico a subire violenza fisica fosse il cane strattonato con noncuranza dalla donna. Lei ha perso il lavoro e ha dovuto dare via il cane, oltre a essersi scusata pubblicamente, mentre i media americani hanno intervistato Cooper e dato ampio respiro alla notizia. Il fatto che questa vicenda sia finita “bene”, però, sottintende che un numero enorme di situazioni simili abbiano un esito orribile, ed è per questo che le proteste continueranno.
Protestare al tempo del coronavirus
Qualcuno potrebbe dire che sia il momento peggiore per manifestare, data l’epidemia in atto. Il dipartimento della salute di New York ha stilato alcuni consigli per i manifestanti: indossare la mascherina, disinfettare le mani, muoversi in piccoli gruppi, evitare di gridare usando cartelli e trombette. Chiedere a una popolazione in rivolta di attenersi a queste norme è praticamente impossibile, soprattutto se la risposta delle istituzioni è violenta e le forze dell’ordine si sentono autorizzate ad aggredire i giornalisti e guidare auto contro le persone.
Anche se le manifestazioni rappresentano un rischio di contagio, in realtà le due crisi sono inevitabilmente concatenate: il razzismo sistemico minaccia la salute di una fetta di popolazione che non può più accettarlo in silenzio.
Il tanto agognato “ritorno alla normalità” post lockdown non è uguale per tutti.