Per non fermarci al gossip e alle chiacchere sul caso Romano, abbiamo deciso di andare più a fondo e intervistare Marco Lombardi, docente all’Università Cattolica di Milano. Oltre a essere direttore del centro di ricerca ITSTIME ( Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies), insegna sociologia e sicurezza e contrasto al terrorismo. L’obiettivo è quello di proporre un’analisi più generale ma allo stesso tempo dettagliata delle dinamiche e degli eventi di cui si è tanto discusso.
Professor Lombardi, ultimamente si è parlato molto del “caso” Silvia Romano. Sono quegli eventi che ci portano a vedere un angolo di mondo che di solito preferiamo ignorare. Innanzitutto una domanda “sociologica”: come spiega la reazione forte e divisa dell’opinione pubblica quando, in altre occasioni, eventi come questo erano passati in sordina?
Per diverse ragioni: primo, Silvia Romano è stata l’occasione di parlare di qualcosa di diverso dal Coronavirus e ha permesso alle “tifoserie” di riorganizzarsi su un tema diverso. Due: parlo di tifoserie perché questa è la struttura della comunicazione via social; social che non fanno informazione ma originano schieramenti con “like” e “dislike”. Tre: Silvia Romano è andata a toccare gli italiani su argomenti di discussione quotidiana come le ONG. […] Quattro: la dimensione comunicativa che gli è stata data dalla politica è stata impropria ed esagerata […].
Andiamo al punto. Professore, la realtà dove Silvia Romano si è recata è Likoni, nei pressi di Mombasa, in Kenya. L’organizzazione Al-Shabaab è di origine somala e, ricordiamo, associata ad Al-Quaeda. Certamente, considerata la situazione pandemica attuale, la permeabilità dei confini statali rispetto a eventi o sistemi globali non ci dovrebbe più stupire. Ma quanto è effettivamente lunga la mano di Al-Shabaab nel 2020?
Gli Shabaab sono un’organizzazione regionale e non c’è quindi mai stato timore di attacchi terroristici fuori dalla loro regione. Anche nella regione stessa del Corno d’Africa si parla di aree contigue tra Kenya e Somalia e l’Etiopia nella “Somali Region” […]. Il loro obiettivo è l’instaurazione di una repubblica Islamica con la sharia. Hanno perso molto potere negli ultimi anni e sopravvivono per rapporti clanici e tribali. Stanno cercando di penetrare verso nord ma con difficoltà perché Shabaab e Daesh non vanno d’accordo e questo ha portato a scontri, ai quali lo Stato Federale somalo è rimasto giustamente a guardare […]. Hanno però delle forti reti che gli assicurano anche la presenza a Mogadiscio […]. Il tentativo attuale è quello di bilanciare la perdita di territorio sul fronte militare con una maggior credibilità politica anche esterna. Questo spiega l’importanza data al caso Romano ma anche alle relazioni con Qatar e Turchia.
Ci siamo proiettati in un’area del mondo ricchissima di etnie (ottanta circa nella sola Etiopia) e solamente cinque Stati: il Corno d’Africa. Questo sicuramente favorisce un’insofferenza da parte delle minoranze; può essere questo un motivo della presenza di gruppi terroristici (Al-Shabaab ma non solo) o ce ne sono altri più determinanti?
È importante fare delle distinzioni. Infatti, la parola terrorismo in questo caso crea confusione […]. Il Corno d’Africa ne è un esempio ma accade lo stesso in tutti i Paesi dove esiste una segmentazione su base etnica che fa sì che sia difficile parlare di terrorismo come noi lo intendiamo […]. Lì si chiama tutti “terroristi” ma poi ognuno mette il cappello che vuole. Alla fine, sono terroristi in funzione della accettazione o meno della definizione data del potere statale locale del momento […]. Il problema tocca tutta l’Africa, dove interessi tribali ed etnici si affermano con le armi. Ciò ci porta a distinguerli da quei progetti internazionali come il Quaedismo che anzi in Africa possono avere problemi di penetrazione perché si basano su un fondamentalismo religioso di base islamica […]. Teniamo presente che l’Africa è colonizzata dall’Islam ma l’anima profonda è tribale e animista. L’Islam è una forzatura importata da Oriente che è radicata fino a un certo punto. Perciò, non è facile per i progetti panislamisti radicarsi […]. Esiste certamente un terrorismo africano ma non è affatto come quello arabo.
Tutti sono sorpresi del ruolo svolto dai servizi segreti turchi nella liberazione di Silvia, ma in realtà la presenza turca in Africa è massiccia e la Somalia è uno dei tanti “hub” africani turchi. La presenza turca può in qualche modo aiutare il processo di stabilizzazione della Somalia e la neutralizzazione del terrorismo? Oppure è semplicemente un perseguimento di interessi nazional-imperiali da parte del Sultano Erdogan?
La pace è uno strumento funzionale ad affermare il proprio business e ciascuno lo fa poi con delle pratiche diverse. La Turchia segue un
Professor Lombardi, curiosamente, l’Italia, nei suoi scenari geopolitici, si trova spesso fianco a fianco con la Turchia. In Libia entrambi sostengono Fayez al-Sarraj ma chi fornisce armi, e quindi chi conta, è la Turchia; della Somalia l’Italia ha avuto l’amministrazione fiduciaria fino al 1960 ma abbiamo dovuto ricorrere alla Turchia per liberare Silvia. È possibile che i nostri servizi segreti, la diplomazia e la politica abbiano qualche problema nei territori che più ci dovrebbero essere familiari?
L’Italia non può che perdere nell’attuale contesto internazionale perché è un interlocutore debole, non perché non abbia le armi o le competenze ma perché non ha fatto nessuna scelta politica e quindi strategia. L’Italia è un turacciolo sballottato dai flutti anche se a volte si convince di essere furba per aver sfruttato opportunisticamente delle situazioni […]. Di conseguenza, si trova a pagare lo scotto per la sua assenza, nel Corno d’Africa, in Libia ma anche a Cipro. Si trova a pagare perché non sa da che parte stare e crede di essere furba stando un po’ da tutte le parti: non siamo abbastanza forti per stare da soli e non abbiamo una visione politica sufficiente per poterci prendere le responsabilità di decidere di stare con qualcuno […].
Ritorniamo in Italia: il pericolo terrorismo, come riporta il sito della Farnesina, è globale e nessuna parte del mondo è immune. Nella stagione degli attentati, l’Italia non ha subito alcun attacco a differenza dei nostri vicini. Come si può spiegare? È forse questione di peso geopolitico e quindi di immagine? Di assenza di una seconda (o terza) generazione di immigrati non integrata? Di una migliore gestione?
L’ultima domanda è sul riscatto; non sulla cifra sborsata ma sulla strategia . Al di là del fattore economico, il rapimento per estorsione appare tra le variegate entrate di Al-Shabaab. Questo non potrebbe esporre gli italiani ad una maggiore frequenza di rapimenti?
Primo, il riscatto non è fonte importate di guadagno per gli al-Shabaab, sono un’organizzazione mafiosa che fa milioni col commercio di carbone ma non attraverso i riscatti. Secondo, gli Shabaab devono effettuare i rapimenti in Kenya ma il Kenya è uno Stato nemico degli Shabaab. Devono infatti evitare che le località turistiche diventino luogo di razzia degli Shabaab o perderebbero il turismo che è fondamentale per il Kenya. Certo, i kenioti si sono dimostrati incapaci ma sono i primi a difendere i propri interessi. Molti hanno parlato di convenzioni per cui non si pagano i riscatti ma le convenzioni si firmano a livello internazionale e poi non le si presta attenzione; è questione di opportunità […]. Firmo la convenzione perché è un’opportunità e pago il riscatto perché è un’opportunità ma le due cose non sono legate […]. La scelta di salvare un italiano poi è prioritaria e quanto pagato è miserrimo. Quattro milioni di euro non fanno ricchi gli Shabaab che hanno budget di centinaia di milioni […]. Ciò fa pensare che siano altri gli accordi, con Shabaab ma anche con altri partner del riscatto (Turchi) che magari volevano liberarsi di una grana come quella della Romano […]. Non credo che sia aumentato il rischio né che ci saranno più rapimenti o che possano comprare chissà quali armamenti […]