Dall’ispirazione nascono le poesie, e tramite gli spunti adeguati nell’animo dell’uomo fiorisce un sentimento così spontaneo e impersonale che a tratti esitiamo a chiamarlo umano.
Se c’è poi, tra le tante, una lezione che il grande filologo Eric Auerbach ci ha insegnato, è la meraviglia logica per cui da una scintilla può nascere non solo la poesia, non solo l’inafferrabile di un patto col mistero, ma anche la scienza, la chiara narrazione, l’ispirata spiegazione. È per questo che lo studio di un fenomeno complesso, di cui non esiste un vero esperto – come per la tettonica degli spazi culturali, i movimenti politici di masse poliformi, gli impulsi libidinali dei complessi storici –, sembra spesso più legato all’elaborazione di uno spunto, di un momento, di un punto, che all’analisi macroscopica e disperata di tutto il sistema.
È per questo che nel seguente articolo, con sincera assenza di pretese e consapevole mancanza di spessore, tenteremo di rovistare nella storia per trovare un punto di partenza accettabile, un input adeguato per comprendere – nell’atmosfera di una favola, più che di un documentario – da dove nasca lo spettacolo dell’odierno sfruttamento, quale sia l’atto primo di un sistema economico neoliberista che, svendendo la purezza dello spirito di libertà al capitalismo più becero e opportunista della storia, tormenta le nostre vite nei loro aspetti più profondi.
Di per sé la storia completa del neoliberismo è troppo lunga, complessa, e polimorfa persino per racchiuderla in un libro di economia, politica o filosofia, e noi non tenteremo questa impresa in un articolo. Parliamo di un’epopea che nasce idealmente nel ’78, con la liberalizzazione economica della Cina di Teng Hsiao-ping, assurge ideologicamente allo spirito della storia con l’elezione di Margaret Thatcher nel Regno Unito (1979) e quella di Ronald Reagan negli USA (1980), e segue tutta la cronaca del mondo globalizzato da lì fino ai giorni nostri, descritti nelle loro incoerenze dalla crisi dei mutui subprime e dalle ripercussioni sanitarie, economiche e politiche dell’attuale flagello pandemico. Non parleremo di tutto, ma ci limiteremo a cercare un protagonista, spiegarne le sventure e lasciare al lettore la capacità di astrarre.
Per il nostro racconto ci ispireremo alla Breve storia del neoliberismo di David Harvey, antropologo e sociologo britannico di fama mondiale. Come le migliori storie, dalle invasioni aliene alle biografie degli sportivi, la nostra comincia negli Stati Uniti, a New York: la moderna capitale del capitalismo finanziario. La Grande Mela, durante gli anni ’70, visse una grave crisi fiscale che aveva svuotato le casse dell’amministrazione e aveva reso la città un posto invivibile, privo di servizi adeguati e afflitto dalla microcriminalità. I poteri cittadini post-bellici avevano gestito le finanze pubbliche in maniera scriteriata, e l’opinione faziosa che negli anni si è diffusa sulla condizione di default che ammalava New York è quella per cui non ci fossero più modi di garantirle nuovo debito.
Ciò che non viene raccontato dalla storiografia liberale è l’altra faccia della medaglia: i fasti “socialisti” della New York post-bellica e la carica attivistica ed egualitaria che, a partire dal basso, inondava la città.
L’alternarsi di sindaci democratici al governo di New York – alcuni di loro professavano quasi apertamente un pensiero socialista e altri conservavano sulla scrivania il busto di Marx – portò al lento e costante affermarsi di opere federali di assistenza pubblica e sostegno alla classe lavoratrice, che nel concreto si traducevano nel miglioramento del trasporto urbano, nello stimolo alla piena occupazione, nel controllo politico del contenzioso di classe e nella gratuità di sanità e istruzione superiore.
Avendo cognizione della situazione attuale della sfera educativa e di quella sanitaria negli Stati Uniti, in cui le rette scolastiche e universitarie hanno raggiunto vette da capogiro, all’insegna di un’aberrante selezione patrimoniale, e in cui lo stesso vale per la sanità, quasi totalmente privata ed accessibile solo a chi possa permettere di spendere grandi fortune nelle assicurazioni mediche; tenendo conto di tutto ciò, insomma, ci risulta quasi mitologica, favolistica, la prospettiva di una New York in cui, dopo anni di combattimenti per il diritto universale all’educazione, lo Stato era riuscito a rendere gratuite molte università, e in cui la sanità pubblica era vista come una risorsa sociale ineliminabile. La classe dei lavoratori deteneva un importante potere decisionale, aiutata dalla potente figura dei sindacati – una vera e propria autorità a sostegno dei salariati di cui oggi l’Occidente non conserva che una copia allegorica. Le culture e le etnie si mescolavano in un’autentica complessità, che non si limitava a vendere e spettacolarizzare le differenze, ma permetteva loro al contrario di condividere un territorio reale, vivo.
Tutto ciò dovette finire, perché era nell’interesse dei ricchi banchieri della Citybank e affini che ciò avvenisse. Negli anni di una forte amministrazione pubblica, infatti, il virus dei potenti investitori senza scrupoli si diffondeva nell’ombra, senza che nemmeno le potenze sindacali e politiche se ne rendessero pienamente conto. A causa dell’erosione dell’economia reale da parte degli speculatori – oltre all’evidente, ma di per sé non sufficiente, spesa sconsiderata dei settori pubblici – la città si andò via via dividendo tra una metropoli ricca di investimenti redditizi (e spesso illeciti) e una periferia massacrata dalle crescenti disuguaglianze. Nel bilancio di New York si accrebbe il divario tra introiti e spese, e le guide turistiche sconsigliavano di visitarla, visto il dilagare di criminalità e inefficienza, culminato nel famoso blackout del 1977.
Quali erano le soluzioni disponibili?
Ce ne erano due, che potrebbero essere racchiuse in altrettante formule: “più Stato” o “più mercato”, e la seconda ebbe la meglio. La prima alternativa, almeno dal punto di vista ideologico, era legata a una tendenza della sinistra occidentale di quegli anni. Alla crisi inflazionistica e di stagnazione del capitalismo keynesiano, che aveva caratterizzato l’economia mondiale dal secondo dopoguerra fino ad allora (si è parlato a tal proposito di “embedded capitalism”, ossia mercato e produzioni liberi ma con forti influenze statali e sindacali), movimenti politici come, ad esempio, il cosiddetto “eurocomunismo” di Enrico Berlinguer proponevano di rispondere con un ampliamento dell’influenza statale sull’impresa privata. Nei paesi occidentali i partiti comunisti e socialdemocratici prendevano sempre più consensi, proponendo dei modelli di rinnovamento virtuoso dell’assegnazione dei mezzi di produzione e delle tutele statali. In Svezia era stato proposto persino il cosiddetto “piano Rehn-Meidner”, che suggeriva di rilevare gradualmente le quote proprietarie delle imprese e trasformare il paese in un sistema di lavoratori-azionisti.
Ma vinse l’altra alternativa, quella del mercato. Un gruppo di banchieri legati alla Citybank non rinnovò il debito e mandò New York in bancarotta. Questo al fine di rendersi in seguito disponibili a salvare la città, ma alla condizione che questa ristrutturasse il suo apparato istituzionale e rendesse secondarie le spese pubbliche rispetto al rimborso del debito privato contratto, che assumeva una priorità fiscale e dava ai ricchi imprenditori il potere di smantellare tutte le conquiste dell’apparato pubblico, dalla scuola alla sanità, al fine di arricchirsi. Harvey racconta dell’umiliazione subita dai sindacati, ormai privi di potere reale, che furono costretti ad investire i loro fondi pensione nelle obbligazioni cittadine, legandosi mani e piedi all’arbitrio dei nuovi padroni. Walter Wriston, uno di quei famelici investitori, era solito paragonare ogni forma di welfare e statalismo al comunismo sovietico, e l’austerità cittadina comandata dalla sua cricca piacque molto ai governi centrali e alla Federal Reserve, che in quegli anni avrebbero attuato il più grande colpo di stato economico della storia moderna, imponendo il neoliberismo su scala nazionale e creando un effetto domino che avrà ben note ripercussioni in tutto il mondo.
New York non vide cancellate unicamente le sue conquiste storiche, ma anche la sua classe operaia, la sua multiculturalità, le sue infrastrutture. La periferia fu condannata al confinamento politico-sociale e al deterioramento fisico, i lavoratori si arrendevano con disperazione alla recente perdita di tutto e persino la cultura, l’arte e la musica si neo-liberalizzavano. La sperimentazione estetica e sessuale scimmiottava con fintaggine la libertà sognata, che non si sarebbe ottenuta con l’abuso di droghe e la seriosa pantomima degli “alternativi”, ma solo con un felice, e ormai perduto, lavoro per i diritti e le tutele. Il sogno americano – se, dall’epoca del capitalismo di piantagione, è mai esistita una cosa del genere – veniva ulteriormente falsificato dall’arricchimento a porte chiuse, da un sistema fiscale che pesava sugli ultimi e dal classismo senza legge e senza morale dei padroni sfruttatori. Come scrive Jonathan Mahler nel suo articolo How the Fiscal Crisis of the ’70s Shaped Today’s New York:
Negli anni a venire, ciò che aveva portato alla formazione di politici progressisti, sindacati e generazioni di attivisti cittadini – una città della classe operaia con un senso di comune vita pubblica – sarebbe stato trasformato nelle due New York di oggi, una dalla ricchezza mozzafiato, l’altra di una bruciante povertà. Secondo molti liberali è stata una traiettoria sfortunata; per alcuni una tragedia.
Ma nulla fu inevitabile, il tutto seguì degli interessi specifici. Come ricorda lo storico Kim Phillips-Fein, “l’austerità è una scelta politica”.
Gli USA, ovviamente, non sono stati così sciocchi da testare sulla loro roccaforte finanziaria un modello economico che, sebbene oggi appaia alla coscienza comune come “inevitabile”, negli anni ’70 risultava minoritario e malvisto agli occhi di un diffuso sentimento keynesiano e welfaristico. L’11 settembre 1973, in una delle tante imprese di “liberazione” (ancora questo termine, ancora in questa guisa), gli yankee destituirono il governo democraticamente eletto di Salvador Allende; il quale, secondo un’interpretazione creativa e responsabile del grande socialismo sudamericano, aveva portato il Cile alla speranza di politiche economiche dirette al pareggio salariale, alla destituzione politica delle élite economiche, al sostegno welfaristico degli indigenti e, in definitiva, alla speranza di uno Stato democratico ed egalitario che ristabilisse i diritti del lavoro e la dignità sociale. Tutto ciò poté funzionare fino a quell’11 settembre, giorno in cui Augusto Pinochet – sanguinario dittatore della cui escalation nessuna potenza occidentale si è ancora resa responsabile – poté subentrare violentemente al predecessore, con l’esisto del rincaro della devastazione dei diritti del lavoro e del sostegno statale. Finì per consegnare nelle mani degli USA e dei loro eccellenti economisti d’avanguardia (i cosiddetti “Chicago Boys”, figli delle teorie neoliberiste di Hayek e Friedman) le sorti economiche del Cile, che fu smantellato nelle sue risorse e nella sua dignità internazionale con la svendita delle ricchezze, delle infrastrutture, dei salariati e delle istituzioni a quei potenti privati delle élite economiche cilene e americane, ora ancora più potenti, liberi in un Far West mercatistico senza regole e senza limiti.
La storia è lunga e complessa, ma ciò basti a capire che la vicenda di New York 70s, che abbiamo raccontato per sommi capi, non si sarebbe potuta verificare senza prima condurre degli spietati esperimenti di regressione economica (mascherata da progresso) e di imperialismo bellico nelle periferie del mondo, che consegnarono un antico e apparentemente lontano potere politico nelle mani di efferati investitori e miliardari senza regole. Miliardari che ora, per il proprio interesse, quelle regole le fanno. Nessuno meglio di Donald Trump, come pensa Jonathan Mahler, può rappresentare questa ascesa:
Il giovane Donald Trump fa una breve apparizione come icona della nuova New York, un magnate immobiliare che ha sfruttato le connessioni di suo padre e la disperazione della città per effettuare enormi agevolazioni fiscali, affamando la città di entrate estremamente necessarie per l’istruzione e altre funzioni municipali di base, mentre ingigantiva le proprietà dei ricchi. Anche questi edifici sono simboli, ricordi del fatto che gli investimenti privati che guidano l’economia della città hanno un costo, spesso a carico di coloro che meno possono permetterselo.
D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, il Saggiatore, Milano, 2007
J. Mahler, “How the Fiscal Crisis of the ’70s Shaped Today’s New York”, The New York Times, 05/05/2017