Il governatore della regione Lombardia Attilio Fontana, verso la metà di marzo, si è dichiarato soddisfatto di come la Lombardia ha reagito all’emergenza Coronavirus. Negli stessi giorni, i decessi nella sola regione lombarda hanno superato quelli della Cina, il paese da cui è partito il contagio. Durante questa pandemia ci siamo abituati a sentire parlare quotidianamente di cifre su cui abbiamo ben presto smesso di fare affidamento, in quanto relative al numero dei tamponi e/o dei test effettuati nonché all’attendibilità di questi ultimi. A diversi mesi dal 23 febbraio, data in cui è stata dichiarata la ormai famosa “zona rossa” per una decina di comuni della provincia di Lodi, i dati sembrano effettivamente incoraggianti: i ricoverati nelle terapie intensive stanno diminuendo, diversi reparti Covid sono stati chiusi, ben cinque regioni presentano zero nuovi casi e in tutte quante questi non superano quota sessanta. Con una sola eccezione: in Lombardia i contagi continuano a crescere.
Si potrebbe obiettare che in Lombardia sono stati effettuati molti più tamponi che nelle altre regioni e che, appunto, i dati sono sempre relativi. Uno di questi è però inequivocabile: il numero dei morti. In Lombardia i deceduti sono attualmente più di 15.000, circa la metà di quelli di tutta l’Italia. Certamente la regione è stata colpita pesantemente e per prima, con i focolai di Codogno e nella zona bergamasca, quando ancora non si aveva ben chiaro come comportarsi. Negli stessi giorni, tuttavia, è stata accertata la presenza di un focolaio nei pressi di Padova e in breve anche la provincia emiliana di Piacenza – confinante con la Lombardia – è risultata una delle più colpite, così come molte altre zone del Nord. Il numero di morti in Veneto non è arrivato a 2.000, in Emilia-Romagna ha superato di poco i 4.000 e in Piemonte si è assestato per ora sui 3.700. È possibile attribuire lo squilibrio dei dati riguardanti la Lombardia solo alla maggior densità di popolazione, alla maggior circolazione di persone o all’inquinamento, quando non a una presunta “voglia di movida” che avrebbe colpito maggiormente i cittadini lombardi?
La gestione delle RSA
La procura di Milano ha infatti aperto un’inchiesta, tuttora in corso, sulla gestione delle case di riposo. Il presidente Fontana ha prontamente scaricato la colpa della mala gestione ai tecnici delle ASL, affermando di essersi semplicemente adeguato alla scellerata proposta – approvata lo scorso 8 marzo dall’assessore al welfare Giulio Gallera – di trasferire gli anziani positivi al Covid nelle case di riposo così da liberare posti negli ospedali, nonostante ciò fosse stato sconsigliato da più parti, oltre che dal buon senso.
I parenti delle vittime vogliono giustamente andare a fondo della questione e si sono mossi per vie legali, così come gli operatori sanitari: diciotto di questi hanno sporto denuncia presso la Fondazione Don Gnocchi, accusando la mancanza di direttive chiare su come comportarsi, la mancanza di misure igieniche necessarie quali banalmente le mascherine – di cui sarebbe stato per altro inizialmente sconsigliato l’utilizzo per non creare allarmismo nei pazienti – oltre che l’assenza di tamponi, la chiusura tardiva delle visite, la mancata sanificazione degli ambienti e, appunto, il trasferimento nelle strutture di pazienti infetti.
Le conseguenze della privatizzazione
Purtroppo, la cattiva gestione delle RSA non è un’esclusiva lombarda poiché riguarda molto da vicino anche l’Emilia-Romagna. I dati dimostrano però che gli emiliani si sono mossi meglio: una delle differenze più significative è stata l’attivazione della sanità sul territorio, fondamentale nella gestione dei malati costretti in casa, della quale in Lombardia non si è vista nemmeno l’ombra. A ciò è strettamente legato il fatto che, negli ultimi vent’anni, la sanità lombarda – considerata fiore all’occhiello della nazione – è andata progressivamente verso una massiccia privatizzazione delle strutture ospedaliere: ben il 40% delle spese sanitarie regionali finiscono infatti nelle strutture private. Una privatizzazione per altro non esente da scandali: Roberto Formigoni, presidente della regione Lombardia dal 1995 al 2013, è stato infatti condannato a sei anni con l’accusa di corruzione. L’ex-presidente ha ricevuto infatti ben 8 milioni di euro in cambio di appoggi illeciti.
La stragrande maggioranza delle strutture private non è attrezzata con reparti di terapia intensiva, fondamentali nelle situazioni di emergenza, poiché esse si occupano per lo più dei malati cronici. Il risultato è che, nonostante il privato tragga i maggiori profitti, la gestione dell’emergenze grava esclusivamente sulle spalle della sanità pubblica: il Coronavirus non ha fatto eccezione, nonostante sia stato dichiarato fin da subito che privato e pubblico avrebbero collaborato per far fronte alla situazione. Una speranza disattesa dai fatti.
L’ospedale all’Ente Fiera
Il risultato del nuovo ospedale dedicato esclusivamente alla terapia intensiva si può giudicare facilmente dai numeri: è costato 21 milioni di euro e ha ospitato finora una ventina di pazienti. Molti medici hanno criticato il progetto in partenza, sostenendo che è impossibile far funzionare una terapia intensiva separata dal resto dell’ospedale. Anche in questo caso Fontana e Gallera si sono invece detti contenti, poiché il fatto che l’ospedale non venga sfruttato significa che la crisi si sta risolvendo.
In ogni caso, alcuni donatori si sono pentiti amaramente di aver investito nell’ospedale: l’avvocato milanese Giuseppe La Scala, dopo aver appreso che probabilmente la struttura verrà smantellata – di certo non a costo zero – su Twitter si è autodefinito “un pirla” per aver donato insieme a tutto il suo studio ben 10.000 euro a un progetto fallimentare. Gli investitori vogliono vederci chiaro: è significativo che ancora, oltre la metà di maggio, non sia stato fornito alcun rendiconto riguardo alle spese per la costruzione dell’ospedale.
L’incompetenza, un’arma pericolosa
Come se tutto questo non bastasse, Fontana e Gallera si sono distinti in questi mesi per una serie di uscite infelici che hanno scatenato l’ilarità in gran parte della popolazione: su tutte, l’immagine del presidente di regione che impiega molto tempo a infilarsi correttamente la mascherina – mentre dichiara di essersi messo in auto-quarantena in piena emergenza – e la più recente dichiarazione dell’assessore secondo cui, se l’indice di contagio è vicino allo 0,50, allora significa che sono necessarie due persone positive contemporaneamente per contagiarne una terza, “e non è così facile”.
Se pensiamo a quanto sono costate le loro decisioni in termini di vite umane, però, ci viene sicuramente meno voglia di sorridere. Nessuno, dal semplice cittadino al Presidente del Consiglio, poteva essere preparato a quello che è successo in questi mesi e certamente, con il senno di poi, è molto più facile dire che certi errori potevano e dovevano essere evitati, sia da parte dei singoli che da parte delle istituzioni. Il caso lombardo è però emblematico di come l’incompetenza possa trasformarsi in un’arma letale in situazioni molto gravi e, in quanto tale, non deve più essere tollerata in chi ricopre cariche istituzionali.