Pier Paolo Pasolini era un barbaro tra i barbari, illuminato da una grazia così gentile da perdonare l’oscurità del suo violento, spensierato e ingiustificato sadismo. Fu il padrone di una duplicità evidente, di un’alterità scontrosa e mai decisa.
È stato infatti un erede letterario dell’unica spiritualità italiana possibile, quella della piccola ingenuità del “nido”, della segreta masturbazione e del capriccioso mutismo infantile. L’unico sentimento poetico non conformista possibile nella sua «piccola», misera Italia, un sentimento rassegnato alla decadenza e quindi alle ragioni rassegnate della piccolezza – un’insufficienza che, come spiegato da Pier Paolo stesso in una famosa intervista televisiva, guarda da lontano le sconfinate metropoli atlantiche (e la loro sterminata borghesia) e non contempla l’ampio raggio comunicativo delle grandi lingue, dallo spagnolo allo swahili.
Contro la spigliatezza pubblicitaria della cultura dei consumi, Pasolini si rinchiudeva nell’abbraccio primitivo della madre, e subiva, incapace e tremante, sulle sue gambe fragili.
Ma questa straordinaria, francescana umiltà dello spirito italiano non impedisce che egli si imbarchi – per passione e per travolgimento, non di certo con fermezza – nel flusso senza remi di quello che Carmelo Bene, con acuta rapidità ermeneutica, riconoscerà come un «dannunzianesimo inconfessabile». L’estetismo edonista e la forza aristocratica sono l’altro esito della sua decadenza, l’altra confessione della sua italianità.
Un aristocratico, tuttavia, senza violenza, ma deciso nelle sue scelte da un sensibile spirito rivoluzionario. Profondo nemico del suo tempo, Pasolini assomiglia molto allo sprezzante ma impotente criticismo di Rousseau, Stendhal e Cocteau, piuttosto che alla furente stamina, all’evidente mettersi in gioco dei poeti rivoluzionari e degli ideologi affermativi – categorie a cui spesso Pasolini, forse per una maldestra interpretazione dei motivi del suo assassinio, viene erroneamente associato.
Pasolini non è un convinto ispiratore e nemmeno un pubblico agitatore, o almeno non vuole essere tale. Egli è un nemico pubblico, senza dubbio, un nemico di quel potere che egli conosce, di quel «fascismo esistenziale» della società dei consumi, ma non è un rivoluzionario che va professando, che va trasformando e va proponendo una forma di vita, non è guevarista e nemmeno trotzkista: egli è innanzi tutto un fanciullino, un acheo, un ἀριστοκρατικός, un eremita e un edonista.
Questa larga oscillazione, questo costante «ossimoro» che Pasolini stesso riconosce esser parte della propria opera, trova il suo compimento poetico più alto ne Le ceneri di Gramsci (1957). Come nota Giuseppe Leonelli, questa raccolta di poemetti nasce come «un antidoto agli opposti moralismi» politici. Pasolini riconosce gli anni terribili della cultura di sinistra, figli del XX Congresso del Pcus, che aveva appena condannato i crimini di Stalin. Ma il poemetto intitolato “Comizio” parla di quella «confusione della fede» – causata da non altro che da «borghese impotenza» – che esalta quella morta folla vivente, urlante un dolore del passato ai pedi della fiammella neofascista. E il più grande nemico politico del poeta è quel «vuoto» potere centrista (Scritti corsari), che giustifica e assiste il totalitarismo reale, quello dei consumi, e che ritorna spesso nelle Ceneri come sgradita atmosfera, se non come oscuro protagonista.
Se il soggetto della raccolta di Pasolini è il potere «totalizzante» e decentrato del consumo, l’oggetto tragicamente offeso e devastato da questo abuso è il popolo, quello di contadini, operai e sottoproletari. Figli ingenui di una cultura scomparsa, i martiri di un potere apolide e senza cultura affollano le borgate e soffrono l’oppressione, dimenticati da quella storia di cui, eppure, sono i protagonisti.
[…] mai tolto al tempo, non l’abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove – nuove al vecchio canto –
a ripetere ingenuo quello che fu.
Il popolo non vive che la sua «vita perentoria», ed è cosciente della storia solo come «magica esperienza», superficiale frequenza. «[M]uta in lui l’uomo il destino», e il suo canto è sempre lo stesso, da sempre, dalla «santa violenza» del clero alla falsa Unità di cui fu schiavo massacrato, bracciante sfruttato. Eppure esso canta, di una luce che illumina il poeta. Quella del popolo è un’incoscienza imposta, di cui Pasolini assapora la spontanea umanità come fosse un palliativo.
Il popolo viene derubato delle sue forze, dei suoi risparmi e infine della sua tradizione. Il mondo della speculazione finanziaria, dell’atlantismo e della mercificazione vive di una «morte dolce come l’aria», in cui «la classe più alta regna immota». E nelle periferie c’è il popolo martire, il popolo che non ha colori, ma solo nemici. «Gli è nemico» il politico di sinistra, il politico di destra, il progressista, il padrone, l’intellettuale e persino la pietà.
Con una vita di altri secoli, sono
vivi in questo: e nel mondo si mostrano
a chi del mondo ha conoscenza, gregge
di chi nient’altro che la miseria conosca.
Il sottoproletario, l’operaio e il contadino sono la rappresentazione vivente di «ciò che, in ognuno, era il mondo». Pasolini non parla di questa nostalgia primitivista con rimessa tristezza, ma con la «pura passione» (forse la parola più utilizzata nelle Ceneri) del ricordo friulano, della lentezza prebellica e della rievocazione occasionale.
Pasolini non si rinchiude, non piange, ma ricerca con costanza ed occhi sempre nuovi le frange disperse del Terzo Mondo, dell’umiltà e dell’«età del pane». Il poeta non parla di un ideale aurorale, di una civiltà dell’oro, ma di un popolo ordinario che riconosceva il suo padrone in volto, che consumava solo lo stretto necessario e che nemmeno si avvicinava ai beni superflui, che rendono superflua la vita.
Quello che Pasolini riconosce come il «codice interclassista» del conformismo è quel sistema di valori che si afferma negli anni Settanta, l’epoca della «scomparsa delle lucciole» a Roma. I valori del vecchio universo agricolo, già violentati e denaturati dalla loro nazionalizzazione ad opera di fascismo e DC, finiscono per non contare più nulla. L’etica del consumo, l’americanizzazione e la pubblicità finiscono garantire la prima, autentica unità d’Italia.
Mentre gli altri paesi occidentali hanno alleggerito l’incalzare distruttivo del conformismo con una già formata unità nazionale, l’Italia, confusa e disorientata da un’unità politica unicamente altoborghese, finisce amalgamarsi senza teologia e senza nazione sotto i colpi del mercato. Lo smog annienta le lucciole, e nel Belpaese avviene ciò che Hitler e il nazismo non hanno mai praticato con tanta furia: il genocidio incondizionato di ogni cultura e di ogni tradizione.
La politica, la DC, si riduce a mera «polizia tecnocratica». La permissività morale del nuovo potere, che in realtà non è che mera deterritorializzazione, viene accettata da una sinistra traditrice come “progresso”. I culti, i dialetti, l’appartenenza e le particolarità vengono distrutti per fondare un piano più liscio. Un piano in cui sia possibile il libero scorrere del consumo, libero di un’alienazione senza umano. Il consumismo è infatti un potere dispotico e devastatore che manipola i corpi in maniera più crudele di Mengele, ossia plasmandone la coscienza (di classe, di appartenenza, spirituale, etc.).
L’uomo medio dei tempi di Leopardi poteva interiorizzare ancora la natura e l’umanità nella loro purezza ideale oggettivamente contenuta in esse; l’uomo medio di oggi può interiorizzare una Seicento o un frigorifero, oppure un week-end a Ostia. Cosa in cui c’è un residuo di umanità proprio nella passionalità e nel caos in cui tali nuovi valori vengono vissuti.
Ma cosa ne ha fatto, Pasolini, del suo popolo? Non ne ha avuto pietà, ma racconta: «Ne ho riportato attestati muti/ d’allegria in cuore a una città nemica». Egli tenta di vincere un «braccio di ferro» col consumo, di cui egli è pur consapevole produttore. Ha bisogno di una giacca per vestire, di un editore per pubblicare, di un pubblico per campare. Così egli rifiuta l’opzione del suicidio intellettuale e si serve dell’escamotage artistico. Solo la poesia è merce inconsumabile. Un prodotto che non deperisce, capace di sopravvivere ben oltre il proprio autore. In grado di conservare i valori riscoperti di un mondo che, con essa, tarderà a scomparire nel suo ultimo respiro. La miope ideologia del consumo, che porta le culture popolari a scomparire nelle file di un centro commerciale, non riesce ad integrare la poesia, che conserva già da sempre un gradiente di rigetto.
Sta proprio in questo rigetto, a suo stesso dire, l’autenticità intellettuale di Pasolini. Egli, suo malgrado, accetta criticamente l’integrazione, ma sfugge a quella classe di intellettuali italiani che si piegano acriticamente al compromesso.
Quell’«estetica passione» di Pasolini, quella vena aristocratica che sopravvive alle sferzate dell’omologazione e al pietismo della sensibilità, è ben altro dalla frivola medietà, dal superficiale (seppur patetico) estetismo di Pavese, che vive di una nobiltà distratta, e non del narcisismo guerriero delle sublimi passioni naturali. Un’aristocrazia consapevole ed anti-storica, non una nobiltà di schiatta, distaccata e pettegola.
Ciò che manca alla cultura italiana è una chiara sperimentazione della rabbia sociale. In Italia non ci sono arrabbiati. C’è solo una piccola borghesia, e quindi una piccola rabbia, che spesso, nelle forme intellettuali e giovanili, non riesce a reinventare le sue forme. Si tratta sempre di riciclare il vecchio feticcio della Resistenza, dell’antifascismo, senza gli anni di un nuovo potere e quindi di un nuovo sfruttamento rendano le menti in grado di violare i loro dogmi. Persino Marx, il Cristianesimo e la democrazia sono dogmi insufficienti, preghierine consumate senza effetto, se non vengono dovutamente reinterpretati.
Pasolini paragona la sua rabbia a quella di Socrate. Una «rabbia non catalogabile», che sfugge all’inconsistenza della mitologia, dell’iconologico. Durante il suo colloquio con il demone di Gramsci, dinanzi alla tomba nel Cimitero acattolico di Testaccio, il poeta lamenta quel «maggio» dall’aria impura, quella «pace disamorata» di un mondo grigio, annoiato e senza scopi provvidenziali, dove la massacrante routine dell’ovvio e della senescenza viene scandita da colpi d’incudine e rumori di tram, da nient’altro che da routine.
Un’abitudine priva di ardore, senza ideale e senza errore, che porta Pasolini ad invocare la vita di un «fratello» defunto, la vicinanza ispiratrice di un amico, non la pietà compassionevole di un padre.
E forse è questo il verso più potente del poemetto: «Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo».
Quali sono i due mondi? La vita e la morte? L’inferno e il paradiso? L’URSS e gli USA? La città e il cimitero? A chi si riferisce quel «siamo»? All’uomo occidentale? A Pasolini e Gramsci? E che natura ha la congiunzione, questo ”e” che lega il poeta al suo demone? L’umida atmosfera del cimitero accoglie le ceneri di Gramsci, a cui Pasolini, «tra speranza e vecchia sfiducia», si accosta, con delle domande che nemmeno lui conosce, senza alcuna attesa di trovare una risposta, ma straziato dal suo frenetico oscillare, oberato dalle sue incoerenze.
Ed ecco qui me stesso… povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine
dal rozzo splendore e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade.
Il dolore di Pasolini è l’impotenza della letteratura moderna. L’«ingenuo amore sensuale», le ridicole passioni di un piacere e di un «male borghese di me borghese», che ha portato i poeti a riempire pagine sull’onore e sul disonore, sul gustoso e sul grottesco, sulla castità e sul travolgimento, quando là fuori il mondo muore, il mondo chiede aiuto. Pasolini si lamenta di vivere senza scelta («Vivo nel non volere»). E, quindi, di rappresentare la figura istituzionale di un letterato che non ha potere sulla realtà. Un letterato condannato, a suo modo, alle catene del dominio e alla barbarie del consumo.
È questa l’«estetica passione», la parte viziosa dell’aristocrazia pasoliniana. Non la nobile saldezza, di cui pure il poeta si fregia quando è capace di possedere nei suoi mezzi il mondo contemporaneo e tutte le sue incoerenze. Invece, la mollezza annoiata, la sensualità patrizia figlia del suo tempo e delle tendenze di questo. Potente come Gramsci, che chiama «fratello» in un mondo che egli stesso vuole analizzare e stravolgere con la sua letteratura. Debole però di una borghesia italiana. Piccolo come la rabbia dell’Italia, che pretende di restare salda e imporre potenza, pur essendo lo spirito della sua cultura dissipato tra le superficialità del mondo contemporaneo.
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere.
Pasolini è dunque dominato da una libido sconsolata, che si dirige verso l’umile e l’antico, ma incappando nella necessaria vanità del consumo novecentesco, del potere del capitale culturale. Contro questo, contro la sua passione borghese, non può fare niente, e quando se ne accorge si dispera. Il poeta non è un genio astorico, ma una vittima critica del suo tempo. Egli non ragiona attraverso ideologie, ma su di esse. Poi le getta via, insieme ad ogni forma effettiva di potere, perché nessuna di esse si adegua a quella forza caritatevole che muove il suo cuore verso il Terzo Mondo, rendendolo un amante dell’umanità più pura ed un nemico costante di ciò che la corrompe.
Pasolini è un piccolo, consapevole italiano, un usuale figlio della sua piccola Italia, che trova nel suo spirito barbarico, nel suo demone gramsciano, la forza di lottare e di attentare alla sua debolezza.
P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 2015
P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 2015