Dopo il grande successo alla cerimonia dei David di Donatello de Il Traditore (Marco Bellocchio), la sceneggiatrice Valia Santella ci parla del duro lavoro svolto durante le riprese del film e dell’affascinante ruolo dello sceneggiatore.
È stata segretaria di edizione, sceneggiatrice, regista. La sua carriera è nata grazie ad una passione per il mondo del cinema o dal sogno di diventare sceneggiatrice o regista?
La mia passione per il cinema è nata molto presto, verso i vent’anni. Guardando un film di Wenders, Nel corso del tempo, ho pensato “Voglio fare questo lavoro, voglio lavorare nel mondo del cinema”. L’aspetto quasi ironico di questo mio colpo di fulmine è la sceneggiatura del film. Essendo un lungometraggio on the road la sceneggiatura è quasi assente poiché è stata principalmente costruita durante le riprese.
Nel momento in cui è nata questa passione, il mio desiderio era quello di diventare regista così ho iniziato a cercare opportunità come aiuto regista o assistente volontaria in qualche set. Ho “rotto le scatole” a persone che conoscevo fino a ritrovarmi nel ruolo di segretaria di edizione, una figura che mai avrei pensato di ricoprire in quanto consideravo questo un mestiere molto difficile.
Tutto accadde per caso durante le riprese di un piccolo film. Mi sono ritrovata ad iniziare come aiuto regista e, successivamente, a ricoprire un doppio ruolo cioè segretaria di edizione su richiesta di Donatella Botti. Lei mi ha affidato questo compito fidandosi delle mie capacità e da lì ho iniziato una carriera differente.
Nella mia vita sono stati soprattutto gli eventi “fuori programma” a farmi crescere maggiormente, anche nella scrittura. Io e Valeria Golino abbiamo iniziato a lavorare a un corto e mi ha detto “Scriviamo insieme”. Non era la prima volta, avevo già scritto per un mio film e collaborato con Fabrizio Bentivoglio in Lascia perdere, Johnny!. Nonostante questo, è stato proprio il caso ad indirizzarmi alla sceneggiatura.
Tanti episodi nati apparentemente per caso che, in realtà, non sono proprio per caso…li costruisci nel tempo e quando arrivano ti ci devi buttare.
Pensando anche alla sua carriera, pensa che sia maggiormente l’istruzione o l’esperienza a prepararci al mondo del cinema oggi?
La mia formazione è tutta sull’esperienza. Ho frequentato i corsi di Olmi, ma anche questi erano completamente basati sull’esperienza. Ho provato ad entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia, ma non sono stata presa quindi la mia formazione nasce accanto all’esperienza.
È stata fondamentale soprattutto la mia passione per il cinema: leggere tanto e guardare tanti film. A mio parere per fare buon cinema non è tanto importante la regola che qualcuno può scrivere su un libro quanto tutto quello che incameriamo nella nostra biografia o nella nostra cultura. È più importante vedere tanto teatro, andare nei musei, aprire la propria mente all’ispirazione. L’ispirazione viene da un dialogo continuo tra le cose belle che altre menti hanno prodotto e ciò che può nascere dentro di te.
Io credo che un film sia un’opera collettiva ed è proprio questo l’aspetto che ho sempre amato del mio lavoro. Qualsiasi fosse il mio ruolo, il mio contributo era rivolto a un lavoro collettivo che seguiva la visione del regista, ma soprattutto dialogava con tutti coloro che lavorano ad un film.
Ha ricoperto ruoli differenti come sceneggiatrice e come regista. Quali sono le differenze più profonde tra scrivere per se stessi e scrivere per un altro regista?
Scrivere per se stessi è paradossalmente più difficile. Bisogna sentire un bisogno, avere forza e determinazione nel voler offrire una visione, la lettura di una storia. Quando si parla di se stessi c’è il rischio che si rimanga invischiati nelle proprie idee e che ciò che ognuno di noi dà per scontato non riesca ad emergere nel proprio lavoro. Io, nel mio film (Te lo leggo negli occhi), parlavo di esigenze personali, avevo un’urgenza legata alla mia biografia che mi ha portata a voler affrontare quel racconto. Col senno di poi, penso di non essere riuscita a tradurre alcune tensioni, alcune relazioni che risultavano ben chiare nella mia testa. Non bisogna mai dare per scontato che il risultato piaccia a tutti, per rendere interessante un’idea è necessario saperla tradurre.
Oltre al fatto che mi piace molto lavorare con altri ed essere il timoniere della nave, forse per questo non ho ancora immaginato un nuovo film quindi con la mia regia.
Ha spesso collaborato con diversi sceneggiatori per uno stesso film. Quali sono gli aspetti che maggiormente differenziano la scrittura di una sceneggiatura in solitaria da una collaborazione con una o più persone?
Per me è molto più complicato scrivere da soli perché si ascolta una sola voce, si ha un solo punto di vista. Il lavoro di gruppo è molto più interessante perché spesso da una cosa sbagliata, detta da qualcuno, si mette in moto un meccanismo di pensiero collettivo che porta all’idea giusta. Non bisogna essere negativi, non bisogna aver paura del giudizio altrui o di dire sciocchezze. Proprio ciò che a noi risulta sciocco o banale può mettere in moto qualcosa di interessante.
Parlando di collaborazione, l’ultimo film Il Traditore è firmato da ben quattro sceneggiatori. Ci parli della sua esperienza con Bellocchio, Rampoldi, Piccolo.
È stato un film molto difficile perchè partivamo da un soggetto, Tommaso Buscetta, non appartenente alla nostra biografia. Vita e principi che non erano i nostri. La difficoltà maggiore è stata trovare un punto d’ingresso di questa storia. Bellocchio sapeva da subito quale aspetto volesse raccontare della vita di Buscetta. Non gli interessavano il Buscetta seduttore o festaiolo, ma voleva il Buscetta della decisione di parlare con Falcone e ciò che ne è conseguito, voleva un uomo già maturo.
Dovevamo trovare dei punti di contatto tra noi e questo personaggio. Marco ci ha guidati in questa ricerca dandoci un titolo importante: Il Traditore. Una vita attorno al tradimento: della vecchia famiglia del protagonista proseguendo nella guerra di mafia. Esplorando questo concetto abbiamo iniziato a relazionarci con questo personaggio. È stato un percorso molto formativo. Abbiamo letto tanto scoprendo, così, la storia d’Italia di quel periodo. Si è rivelato un percorso complesso, ma estremamente ricco.
Grande trionfo alla cerimonia dei David di Donatello. Come ha reagito alla vittoria come miglior sceneggiatura originale? Si aspettava tutto questo successo?
Io sono una persona scaramantica quindi non volevo pensarci più di tanto. Penso che Il Traditore abbia avuto giustamente grande visibilità, un successo al botteghino dato anche da tanti giovani ventenni che lo hanno visto e apprezzato. Questo sia perché è un film diretto e recitato molto bene sia per l’impatto che la Storia italiana ha avuto. C’è bisogno di conoscere la nostra storia.
Durante la cerimonia, anche senza pensarci, mi aspettavo un buon riscontro. Questo è frutto dello sforzo enorme fatto da tanti, a partire dai produttori come Simone Gattoni, Beppe Caschetto, la Rai passando al profondo coinvolgimento degli attori sino al grande lavoro di montaggio di Francesca Calbelli. Per tutto il periodo di lavoro e riprese l’aria era intrisa di un’energia creativa molto ricca.
Sono quelle cose speciali che crescono intorno a te. Anche se per scaramanzia non vuoi dire nulla, ti aspetti un riscontro positivo.
Abbiamo assistito a una cerimonia estremamente “silenziosa”. Come ha vissuto questa edizione particolare e unica nella storia del cinema?
Purtroppo quello che è mancato durante questa edizione è stata la visibilità dei premiati delle altre categorie. Il cinema non lo fanno solo registi, sceneggiatori, produttori, attori ma tantissime persone. Questo mi è mancato molto così come la parte non visibile dei David di Donatello: la cerimonia che si svolge al mattino con il Presidente della Repubblica, presso il Quirinale. Un momento molto bello perché ci si sente parte di qualcosa di più grande. Si entra nel palazzo di Quirinale, ci sono grande rigore e un senso di comunità molto forte. Nessuno sa chi sarà premiato, ma ci si guarda tutti con grande affetto.
Mi è mancato lasciarmi andare dall’entusiasmo e abbracciare le persone intorno a me, quello slancio emotivo inevitabile dato dalla consapevolezza che il tuo lavoro ha portato al successo sperato.
Parlando del corso di sceneggiatura che tiene presso la Fondazione Fare Cinema – Scuola di cinema di Bobbio. Come si stanno svolgendo le lezioni durante questo periodo di quarantena?
Paradossalmente sta funzionando molto bene e con tempi più ravvicinati. Facendolo da casa abbiamo avuto occasione di incontrarci più spesso. Non rinuncerei mai all’incontro tra le persone, al viaggio in treno, vedere un posto con la neve, la pioggia e il sole. Portare l’esperienza di un singolo viaggio come Roma-Piacenza nella mia classe. Siamo arrivati molto avanti e abbiamo trasformato, nel nostro piccolo, un evento negativo in qualcosa di positivo.
Se dovesse dare un consiglio a chi aspira al lavoro di sceneggiatore?
Bisogna capire se l’interesse è quello per il cinema o per la scrittura poiché sono due percorsi molto diversi. La scrittura cinematografia non può non essere legata alla visione cinematografica perché la sceneggiatura è uno strumento in mano al regista e a tutti i suoi collaboratori. Ciò che noi scriviamo deve essere chiaro e preciso perché deve dare l’immagine che sarà poi realizzata dal regista stesso. Dobbiamo vedere in modo chiaro sulla pagina ciò che noi vedremo sullo schermo. La scrittura può affidarsi alla voce interiore, al pensiero, sensazioni, tutto ciò che sta in una zona non-verbale pur essendo scrittura. Questo non vuol dire che scrivendo per il cinema non si debba scrivere bene, anzi. Non ci devono essere equivoci.
Il mio consiglio è vedere tanti film e leggere tanti libri. Avere una determinazione che butta giù le montagne. È un lavoro difficile, fatto di grande determinazione e, ogni tanto, di casi. Il caso lo attiriamo, costruiamo delle situazioni per cui a un certo punto l’occasione deve arrivare da qualche parte e noi dobbiamo essere attenti a captarla.
Intervista di Beatrice Marcotti