Sudan 2018, abito bianco, hijab nero e orecchini dorati, alta in piedi su di un’auto, la folla coi cellulari che la circonda: Alaa Salah è diventata in pochi minuti e innumerevoli condivisioni online il volto giovane, femminile e determinato della rivoluzione sudanese. Alcuni gesti sono determinanti, plasmano il futuro. Così partecipare a una protesta, prendere coraggio e cantare sopra la folla, esponendosi in prima persona, ha cambiato la vita di una studentessa sudanese di soli ventidue anni, all’epoca dei fatti, che in pochi mesi si è ritrovata a tenere un discorso davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Il Sudan è un luogo complesso, crocevia di culture tra il mondo arabo, cui è culturalmente legato da secoli, e quello africano, al quale appartiene pienamente. Il paese è stato governato per circa trent’anni da Omar Al Bashir, militare e dittatore, che è stato rovesciato con un colpo di stato militare l’11 aprile 2019, apice e diretto risultato delle crescenti proteste popolari anti regime di cui Alaa è diventata simbolo. Le accuse contro il presidente sono per lo più di corruzione e violenza: come ogni dittatore, anche il leader sudanese si è macchiato di una aspra lotta contro l’opposizione, basti pensare che le donne rilasciate dalle carceri del presidente nel 2019 hanno testimoniato di essere state vittime di frustate e altri trattamenti disumani e degradanti.
Evento scatenante della rivolta, che ha acceso definitivamente una situazione esplosiva latente da anni, è stato l’annuncio del governo di voler triplicare il prezzo del pane. Da Atbara, nel nord del paese, le rivolte popolari si sono a poco a poco diffuse in tutto il paese, per raggiungere alla fine anche la capitale Khartoum, portando in piazza anche le nuove generazioni sudanesi: una primavera araba che sembrerebbe essere finalmente riuscita. I motivi profondi della rivolta devono essere trovati nell’inasprimento del regime che, dopo aver perso anche gli introiti petroliferi a causa della secessione del Sud Sudan nel 2011, ha aumentato progressivamente i prezzi e represso sempre più violentemente le agitazioni popolari.
In aggiunta a questa situazione di difficoltà estrema, in Sudan l’emancipazione femminile è stata ostacolata dal regime a più riprese: ad esempio, con due diverse leggi riguardanti l’ordine pubblico, è stato proibito alle donne di uscire senza un parente maschio che garantisca per loro, disciplinandone la sessualità e l’abbigliamento. Queste leggi, che sembrano partorite da un manuale di storia medievale, sono state spesso abusate dalla polizia sudanese per commettere estorsioni e violenze sessuali. Occorre dire che anche la stessa società sudanese è complessivamente ancora molto conservatrice, tanto che l’infibulazione è stata vietata in Sudan solo da poche settimane, ma resta comunque ancora molto diffusa. Oggi, dopo la caduta di Al Bashir, molte di queste leggi repressive sono state abolite, ma per cambiare un atteggiamento e una cultura questo è solo un primo passo, seppur fondamentale.
Il periodo della transizione da un regime dittatoriale verso un’agognata democrazia reale è sempre il periodo più effervescente della storia politica di una nazione, perché il futuro non è scritto e deciso ma può capovolgersi facilmente verso una giovane repubblica o un nuovo regime, in qualche modo figlio adottivo della dittatura precedente. Molti paesi mediorientali e nordafricani hanno visto tracollare le Primavere Arabe in severi regimi, guerre civili ancora oggi non concluse, con migliaia di vittime e scomparsi. Le rivolte, infatti, per loro natura si portano dietro ossimori e incongruenze, rischiando di cadere in una spirale di violenza peggiore di quella che si intende combattere.
In un famoso saggio Albert Camus scriveva:
L’insorto non può dunque pretendere assolutamente di non uccidere né mentire, senza rinunciare alla sua rivolta e accettare una volta per tutte l’omicidio e il male. Ma non può neppure accettare di uccidere o di mentire, poiché il movimento inverso che legittimerebbe omicidio e violenza distruggerebbe anche la ragione della sua insurrezione.
Questo è ciò che il Sudan deve scongiurare, un movimento rivoluzionario che porti a nuove violazioni. Democrazia e rispetto dei diritti, di cui Alaa Salah è bandiera, devono guidare lo spirito rivoluzionario, permettendo così di aprire una nuova pagina nella storia sudanese.
L’immagine del Sudan in rivolta è una studentessa in hijab e orecchini che canta ai suoi connazionali dal tetto di un’auto. Un simbolo spesso non ha bisogno di manifesti politici, saggi teorici o divise militari. Un simbolo mostra alle persone cosa manca loro, rappresenta quello che un paese libero e giusto deve garantire a tutti: la possibilità di vestirsi secondo i propri gusti, di ridere, di cantare. Di vivere senza paura di venire puniti per essere sé stessi.