Sin da quando il Coronavirus si è dimostrato un problema europeo, e non un disastro italiano com’era stato precedentemente ipotizzato, la Svezia è stata nel mirino degli esperti per la sua linea di comportamento. Quando poi l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha indicata come “modello per il ritorno alla normalità“, il dibattito si è fatto più intenso. Svezia sì o Svezia no? Le sue misure, notoriamente meno restrittive degli altri stati europei, sono un azzardo oppure la scelta migliore?
Dopo la terza morte per Covid-19, il 16 marzo, il Paese ha reagito con la sospensione dei soli eventi pubblici: le scuole non hanno mai chiuso, come i negozi e le altre attività produttive. Sono rimasti leciti gli spostamenti di persone e merci; unica misura in comune col resto d’Europa è stata la chiusura dei confini nazionali.
L’arma per respingere il virus non è stata dunque l’isolamento forzato, ma qualcosa di molto più impalpabile: la fiducia nella responsabilità della cittadinanza e nella sua autonoma volontà di mantenere misure di distanziamento corrette. In più, secondo Mike Ryan, capo del Programma di emergenze sanitarie, “il sistema sanitario è sempre rimasto al giusto livello di capacità di risposta all’emergenza“.
All’inizio dell’emergenza qualcuno avanzò l’ipotesi di chiudere le scuole, una delle prime mosse attuate dagli altri Stati europei, ma l’Istituto di Salute Pubblica fece un rapido calcolo di pro e contro, e stimò che i vantaggi dei minori contagi non avrebbe superato numericamente gli svantaggi in termini di carenza di personale sanitario: se i ragazzini non avessero più potuto andare a scuola, si è pensato, le loro madri avrebbero scelto di rimanere a casa con loro, tralasciando i loro impieghi che molto spesso sono appunto nel settore sanitario. Per gli studenti universitari invece si è scelta la didattica a distanza, perché per loro, grandi e autosufficienti, i pro superano i contro.
Dopo due mesi di queste misure è lecito chiedersi: hanno funzionato? Al’11 maggio, i casi confermati sono 26.670, i guariti 4.971 e i decessi 3.256. Messi a confronto con quelli di altri Paesi nordici che hanno adottato il lockdown, i dati svedesi non sono buoni: la Norvegia, ad esempio, ha 8.105 contagiati e appena 219 decessi. L’obiettivo è l’immunità di gregge? L’idea svedese viene piuttosto definita “strategia di mitigazione”, volta a non devastare la situazione sanitaria ed economica del Paese sul medio-lungo periodo: i numerosi morti di oggi permetteranno infatti di affrontare la seconda ondata con numeri sostenibili. Anders Tegnell, l’epidemiologo che ha ideato la strategia no-lockdown, stima che il 40% delle persone a Stoccolma saranno immuni alla fine di maggio, commentando che “avremo da vivere per un tempo molto lungo“.
In conclusione, si può fare un bilancio delle scelte svedesi? Per ora la Svezia è riuscita a evitare il collasso del sistema sanitario, con il 20% dei letti in terapia intensiva costantemente disponibili. Tuttavia, è ancora presto per promuovere o respingere la strategia della Svezia. Sicuramente può essere un modello per l’Italia e gli altri Paesi che stanno affrontando la cosiddetta “fase 2” in questo periodo, perché i cittadini svedesi hanno vissuto la convivenza col virus fin dal principio: da loro è indispensabile apprendere il rispetto di sé e degli altri, un certo buon senso che trattiene dal riversarsi nelle strade a ogni ora anche se l’ultimo DCPM lo consente.