Il governo del Sudan ha vietato le mutilazioni genitali femminili.
Criminalizzare una pratica così ingiusta, traumatica e dolorosa è un primo passo fondamentale per fermare un fenomeno profondamente radicato in molte culture, soprattutto in Africa e Asia, ma presente in tutto il mondo.
Le mutilazioni genitali femminili violano i diritti umani di donne e bambine
L’espressione mutilazione genitale femminile (MGF) nasce dalla necessità di contrapporre il fenomeno alla circoncisione maschile e sottolinearne, dal punto di vista linguistico, l’entità violenta e disumana.
Le MGF consistono nella pratica tradizionale di incisione o asportazione (parziale o totale) dei genitali femminili esterni, per ragioni del tutto prive di fondamento medico-scientifico. L’operazione comprende varie forme di mutilazione: la rimozione del prepuzio clitorideo o del clitoride stesso, l’asportazione delle piccole labbra vaginali e/o delle grandi labbra, infine la cosiddetta infibulazione, che prevede che i lembi cutanei delle labbra vengano cuciti insieme, lasciando solo una piccola apertura per permettere la minzione e le mestruazioni, che verrà in seguito allargata in occasione del matrimonio e in seguito del parto.
In alcuni casi si pensa erroneamente che le mutilazioni favoriscano l’igiene e la fertilità della donna, proteggendola da infezioni e da un “male” ancora più pericoloso, il piacere sessuale.
Praticato solitamente come rito di passaggio tra pubertà ed età adulta (anche se in alcuni paesi vengono operate anche bambine di pochi mesi), il fenomeno è una chiara espressione di una disparità di genere ancora profondamente radicata, perché viola i diritti fondamentali di donne e bambine, mette a repentaglio la loro salute e priva loro di poter decidere sul proprio benessere sessuale e riproduttivo.
L’atto in sé, poi, è estremamente doloroso (non si ricorre all’anestesia) e traumatico: le bambine che lo subiscono rischiano di sviluppare danni psicologici, infezioni e persino di morire per via di shock emorragici. Le conseguenze a lungo termine comprendono infezioni, forti dolori durante i rapporti sessuali e le mestruazioni, ascessi, calcoli, cisti, ostruzioni croniche del tratto urinario, incontinenza, infertilità, maggiore vulnerabilità a malattie veicolate dal sangue e maggiore rischio di mortalità materna.
Cos’è successo in Sudan
Il governo provvisorio del Sudan, formato a seguito della deposizione del dittatore Omar al Bashir, al governo da più di trent’anni, ha ufficialmente vietato le pratiche di mutilazione genitale femminile a fine aprile.
L’emendamento prevede una multa e una pena di tre anni di carcere per chi compie mutilazioni genitali. La speranza, come affermato da Salma Ismail, portavoce sudanese dell’UNICEF, è che la nuova legge protegga donne e bambine da “questa pratica barbara”, tutelando inoltre le madri che decidono di opporsi a questa tradizione per non mutilare le loro figlie. Ora la legge è dalla loro parte.
La vittoria del Sudan
Anche se il governo del Sudan ha vietato le mutilazioni genitali femminili, è troppo presto per cantare vittoria: è molto probabile che gli interventi vengano fatti comunque, di nascosto e illegalmente. È quello che succede, per esempio, nei paesi in cui migrano le persone provenienti dalle comunità coinvolte: l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che le donne ad aver subito MGF siano almeno 200 milioni in tutto il mondo.
In Italia, per esempio, dove le mutilazioni genitali sono illegali, nel 2017 il numero di vittime si aggirava tra le 61.000 e le 80.000, spesso operate durante le vacanze nel paese d’origine dei genitori nel tentativo di aggirare la legge italiana.
Per rinunciare a una tradizione così sentita da tante culture – la religione ha poca rilevanza, diversamente da come si potrebbe immaginare – le leggi non bastano.
In Egitto, medici e genitori che praticano mutilazioni genitali vengono criminalizzati dal 2016 (ma le MGF sono vietate dal 2008), con pene più aspre di quelle del Sudan: fino a sette anni di incarcerazione per l’esecuzione dell’intervento, che possono arrivare a quindici in caso di disabilità o morte causate dall’operazione. Eppure le MGF vengono ancora praticate di nascosto: sembra che la tradizione sia più forte della legge.
La strada è ancora lunga
Il discorso è particolarmente delicato: vietare per legge un’usanza così antica, che per le comunità migranti può rappresentare un modo per mantenere un legame con le proprie origini, potrebbe persino essere controproducente. Anche parlare di mutilazioni, per quanto esatto sia il termine, rischia di creare una linea di separazione troppo netta tra diverse identità culturali, lasciando terreno fertile a giudizi e pregiudizi.
Alcuni studiosi, per evitare di provocare uno stigma sociale a discapito delle donne coinvolte, preferiscono usare il termine “modificazione genitale”, che rimanda alle modificazioni non terapeutiche diffuse tra gli occidentali, come piercing e tatuaggi e chirurgia estetica.
Pur mettendo in conto questo parallelo, non si può sorvolare sul fatto che le mutilazioni genitali privino le donne della loro dignità, riducendole a oggetto sessuale per il marito.
Possibile che ci si preoccupi più della presunta promiscuità che della salute delle donne coinvolte? In Africa, dove le MGF sono maggiormente praticate, è più importante che una donna sia vergine, e perciò “pura”, del suo benessere psicofisico?
La risposta è no, o meglio, non è così semplice.
D’altronde, alcune donne in America (e altrove) accusano rapporti dolorosi dopo aver partorito, e qualcuno ha ipotizzato si tratti di un punto di sutura in più a seguito dell’episiotomia, il cosiddetto “husband’s stitch” – letteralmente “punto del marito”, atto ad aumentare il piacere sessuale del partner. Qualora fosse vero, la correlazione con le mutilazioni genitali non dovrebbe sorprendere troppo.
Le tradizioni patriarcali alla base di queste realtà resistono a causa di un’ignoranza diffusa, la stessa che permette altre forme di abusi, come i matrimoni precoci o la violenza in senso lato. A eseguire le mutilazioni sono principalmente donne, levatrici e ostetriche, e questo la dice lunga sulla mancanza di consapevolezza femminile sul proprio corpo e sul proprio ruolo.
Una donna che non si sottopone al rito non è degna di essere sposata e rischia l’emarginazione, ed è per questo che le donne stesse portano avanti la tradizione.
Contemporaneamente, nemmeno gli uomini sono a conoscenza delle ripercussioni delle mutilazioni genitali sulla salute delle donne: il risultato è che ci si spinge anche oltre la legge, e così sarà finché il piacere sessuale della donna sarà visto come un peccato.
È fondamentale informare entrambe le parti sulla pericolosità di tali pratiche ,e nel frattempo lottare affinché le donne acquistino consapevolezza della loro sessualità. Alcune donne (perlopiù emigrate in paesi dove le MGF non sono la norma) scelgono di ricorrere alla chirurgia ricostruttiva, ma alcuni chirurghi, quando il motivo non è il dolore, consigliano di affidarsi prima di tutto alla terapia psicologica, per permettere loro di elaborare il trauma e accettare il proprio corpo.
La priorità, comunque, rimane porre fine alle mutilazioni genitali. Il tutto, però, senza dover rinunciare completamente all’identità culturale insita in queste pratiche rituali: la soluzione potrebbe trovarsi nei riti alternativi, capaci di conservare il carattere simbolico del rito, persino la sua bellezza, senza snaturarlo, ma senza dolore.