Ci ricordiamo la fase 1?
Pare che molti non abbiano capito che si tratta di una pandemia che ancora miete vittime a centinaia ogni giorno. Quasi fosse il costante dibattito sulla necessità della legge sulla prescrizione o sulla necessità di nazionalizzare l’Alitalia oppure no. Uno di quei dibattiti che vanno e vengono e infiammano i cuori per qualche settimana. Urge quindi rinfrescare la memoria a quanti non hanno ancora capito, vecchi e giovani, di destra e di sinistra, del sud e del nord, che non “si ritorna a com’era prima”. Dando poi per scontato che “prima” fosse chissà quale bellezza eterea.
Come è noto, il 23 febbraio vengono poi istituite le prime zone rosse in Veneto e nella bassa Lombardia. Il 4 marzo poi chiudono scuole di ogni genere e grado; dal 9 marzo invece l’Italia diventa zona arancione, dopo che già il giorno precedente la Lombardia era stata dichiarata zona rossa. Col Dpcm del 9 marzo vengono quindi imposte le severe restrizioni che ben conosciamo. Solo l’11 marzo il Covid-19 diventa ufficialmente pandemia.
È fondamentale ricordare come il 9 marzo, giorno della chiusura totale, i morti registrati erano stati “solo” 97. A due mesi di distanza i morti registrati al giorno sono più di 179. Dunque, la situazione, seppur in miglioramento, è ancora a rischio di deterioramento, come continuano a ricordare gli studiosi che ora vengono tacciati come noiosi e ripetitivi.
Andata e ritorno
Nonostante i richiami alla responsabilità, sembra che il concetto del “non è un liberi tutti” non sia stato recepito. E questo, checché se ne dica, non è certo un bene. Non si vuole sottintendere che si debba starsene tutti chiusi in casa per sempre, ma solamente ricordare che il Covid-19 non si è fermato. E dato che, a differenza nostra, non conosce barriere, può benissimo ritornare.
In Russia, nuovo grande focolaio europeo che all’inizio si vantava per i pochi casi, si stanno registrando finanche 10.000 nuovi casi al giorno. Certo i morti sono ancora “pochi”, circa 2000, ma c’è il rischio concreto che di un peggioramento. La situazione non sembra poi così sotto controllo se si pensa che gli studenti di medicina stanno protestando perché impiegati, senza preparazione, nei reparti Covid.
E ancora, in Brasile la situazione si fa sempre più grigia: i morti sono oltre i 10.000 e solo l’8 maggio si sono registrati 804 decessi. Considerando che le prime morti Covid sono state registrate a fine marzo, il Brasile si trova ancora all’inizio del percorso. Ovviamente la speranza è che esso, accompagnato da tutte le misure necessarie, possa essere più breve e meno mortale di quello italiano.
Conviene quindi ponderare bene quale sia l’atteggiamento che bisogna adottare. È inutile strillare alle limitazioni di libertà e vagheggiare rivoluzioni di popolo contro il governo oppressivo. Anche se tutte le libertà fossero ripristinate immediatamente, che guadagno ne avremmo? Probabilmente più persone si ammalerebbero e molti morirebbero. “L’economia ha la priorità ora”, dicono alcuni, “l’Italia muore se non si riapre tutto”. Per costoro, i morti sono dei danni collaterali, cosa che non stupisce data la mentalità dominante. Ma se quel morto collaterale fossi tu o un tuo caro?
Le uscite spiacevoli
Ora che le uscite sono concesse, non potevano mancare quelle spiacevoli. La prima è quella dello statista del 2% nei sondaggi. “Se i morti di Bergamo e Brescia potessero parlare”, già qui si capisce il livello dell’affermazione che seguirà, “ci direbbero di riaprire”.
È bene affermare di nuovo che nessuno sta qui dicendo di non ripartire. Siamo tutti un po’ stanchi della routine che si è creata, e la gente ha necessità di lavorare per guadagnarsi lo stipendio. Ma se il costo di guadagnarsi lo stipendio è la morte di altre 30.000 persone, è necessario rivalutare le proprie priorità. Se questo è il modo di ragionare, bisogna ripensare un’economia fatta a misura d’uomo e non di impresa o corporation.
Altra uscita spiacevole è quella dei milanesi. Foto, teleobbiettivo o meno, ma anche video ritraggono una folla di persone sulla Darsena e lungo i navigli senza mascherine o che non rispettano le distanze. Si è parlato di andare a trovare i parenti, di andare a correre e fare
Sono tutti atteggiamenti che rappresentano un’offesa a chi è più a rischio, a chi opera in ambito sanitario e in fine a chi ha dovuto subire il dolore di una perdita. Si tratta di un atteggiamento che ricorda le (improvvide) parole di Margareth Thatcher “La società non esiste: esistono individui, uomini, donne e famiglie” ed è riflesso di un individualismo malato.
Fase 2 ma con calma
Dal 4 maggio siamo quindi ufficialmente entrati nella fase 2. Pian piano questo, a parere di molti, “governo illiberale” sta allentando le maglie e si può finalmente ritornare a vedere i propri cari, sempre che siano nella propria regione.
Molti italiani hanno ripreso a lavorare, si parla di circa quattro milioni di persone oltre alle più di quindici milioni che mai hanno smesso. Tuttavia, una grandissima parte di lavoratori, tra cui tutto il mondo dello “spettacolo” e la fondamentale industria del turismo e in parte della ristorazione, rimangono ancora fermi in attesa di tempi migliori. La speranza è ovviamente che si possano trovare delle soluzioni per far ripartire anche questi settori più a rischio.
Si nota purtroppo ancora un tentativo di protagonismo delle regioni, che in questo periodo hanno avuto una presenza importante sui media. La Calabria, con la nuova giunta di centrodestra, ha cercato di allargare le maglie del decreto, parlando di riaprire bar e ristoranti all’aperto. Il Tar ha però invalidato l’ordinanza, in seguito all’impugnazione da parte del Ministro agli Affari Regionali Francesco Boccia. Si spera che questa sentenza sia d’avviso anche per l’Alto Adige dove il Consiglio della Provincia autonoma di Bolzano ha varato un’ordinanza che riapre molti servizi già dall’8 maggio. Questo non significa imporre a tutti la clausura ma procedere per piccolo passi e con massima prudenza.
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