La pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Il carcere, secondo la Costituzione Italiana al comma terzo dell’art. 27, deve avere una funzione, uno scopo che non sia solo quello di neutralizzare il condannato e punirne le azioni commesse, ma soprattutto quello di consentirne il rientro nella società attraverso la rieducazione. Un nobile e giusto proposito, che però in molti stati resta spesso lettera morta. In Norvegia, invece, le strutture carcerarie di Halden e Bastøy cercano proprio di realizzare questo scopo.
Possono esistere carceri che non sembrano tali? Si può ripensare il rapporto detenuti-carcerieri nei limiti della sicurezza? E come si rapportano il fine rieducativo della pena e l’intento punitivo? Le domande a cui questo approccio rivoluzionario tenta di rispondere sono moltissime e il dibattito al riguardo è articolato e complesso, sia all’interno della dottrina giuridica sia dell’opinione pubblica.
Quando si arriva a Halden, ci si trova davanti un enorme parco recintato da un muro alto nove metri, non si vedono né filo spinato né reti elettrificate. Inaugurato nel 2010, questo penitenziario nel Sudest della Norvegia è una struttura atipica con regole molto particolari: i 252 detenuti ospitati vivono in celle dotate di televisione e frigorifero, senza sbarre alle finestre. Tra gli spazi comuni, oltre alla cucina e la sala pranzo in cui detenuti e guardie condividono assieme i pasti, ci sono aree dedicate alle attività fisiche, creative e artistiche, dato che la struttura offre corsi di cucina e musica. All’esterno si trovano una pista da corsa e, addirittura, una parete per l’arrampicata sportiva. In aggiunta agli spazi, anche il comportamento delle guardie è notevole, ad esempio perché generalmente non sono armate. Si pensa, infatti, che le pistole possano creare intimidazione e distanza tra loro e i soggetti coinvolti nel progetto rieducativo.
La giornata dei detenuti è molto ben strutturata, nell’ottica di non lasciare tempo vuoto e improduttivo ma di sfruttare le occasioni per insegnare un lavoro, coltivare un hobby e lentamente imparare a risocializzare. Tra le mansioni lavorative che vedono impiegati i soggetti abbiamo lavori meccanici o cucito. Fondamentale è anche la proposta formativa fornita dalla struttura ai condannati: si insegnano infatti tecniche e conoscenze utili nel mondo del lavoro, come la progettazione grafica e lo studio delle lingue. Altro aspetto fondamentale è l’alta percentuale di donne tra le guardie carcerarie, questo per evitare un eccessivo distacco dalla vita normale fuori dalla struttura e per non alimentare stereotipi di genere riguardo l’autorità e il sesso di chi la esercita.
Bastøy è, invece, un’isola di due km quadrati non molto distante da Oslo, in cui circa 115 detenuti sono ospitati all’interno di un’ottantina di abitazioni. Anche in questa struttura, in cui i detenuti possono rimanere al massimo per cinque anni, la giornata è organizzata tra turni di lavoro retribuito e corsi di istruzione. Ulteriore particolarità è la natura ecologica della struttura: ovunque si trovano biciclette, mentre le auto sono sporadiche. I rifiuti vengono utilizzati come concime naturale per i campi e questi sono arati mediante l’utilizzo di cavalli. Come ad Halden, le guardie non sono armate e solo poche si fermano per la notte, periodo della giornata in cui ai detenuti non è consentito lasciare le proprie abitazioni.
Sorgono spontanee diverse domande: questo approccio rivoluzionario è efficace? Quanto costano ai contribuenti strutture del genere? In ultima analisi, è giusto che un detenuto, colpevole di gravi reati, possa scontare la propria pena in strutture spesso migliori della sua stessa abitazione? Dobbiamo porre queste domande tenendo presente la società norvegese in cui queste strutture sono immerse. Si tratta di una nazione con una bassissima densità abitativa, di appena cinque milioni e mezzo di abitanti, che tendenzialmente vivono con redditi molto più alti della media europea. Il welfare norvegese viene finanziato dallo sfruttamento delle risorse naturali del territorio – il che spiega anche come per lo Stato sia enormemente più facile finanziare progetti simili rispetto ad esempio a quanto potrebbe succedere in Italia o in Regno Unito – anche per il relativo basso numero di condannati di cui doversi occupare.
Fatti quindi i dovuti distinguo, la Norvegia spende mediamente 85.000 euro l’anno per ognuno dei detenuti di Halden, mentre la cifra annuale per il mantenimento della struttura e dei detenuti di Bastøy è di 8 milioni di euro, cifre enormi rispetto al numero dei carcerati. Si tratta di somme ben spese? I dati di recidiva sembrano dare ragione alla filosofia carceraria e punitiva norvegese: in entrambe le strutture il tasso di recidiva si avvicina solamente al 20%, indicando perciò che la maggior parte dei soggetti vengono effettivamente rieducati e messi in condizione di rientrare attivamente nella società. Per intenderci, in Italia il tasso di recidiva era del 68% nel 2018, evidenziando il fallimento della strategia rieducativa degli istituti che invece spesso sono veri e propri focolai di illegalità.
Forse sperare condizioni simili in tutto il mondo è utopico, sia per l’elevatissimo costo di tali strutture e metodologie sia per la difficoltà ideologica da raggiungere. Quando si affronta questo argomento è molto difficile separare il desiderio di punizione da quello rieducativo. Permettere a Anders Breivik, autore del massacro di Utoya e degli attentati di Oslo, di scontare la propria pena in una struttura simile rende giustizia alle vittime? È giusto spendere tante risorse per consentire a un assassino tale una condizione come quella di Halden? Le risposte a queste domande sono difficili e profonde, ma un primo passo per schiarirci le idee può essere questo: se questi metodi hanno successo, quanti Anders Breivik è possibile evitare, quante vite possono essere salvate, riducendo sia i reati, e quindi i soggetti esposti a violenza o furti, sia diminuendo il numero di criminali?
Una società che vede nella rieducazione la strada verso una convivenza più pacifica e produttiva può avere successo, come mostrano i dati. Mettere in discussione le proprie convinzioni è utile: anche quando dare una seconda chance ci può sembrare ingiusto, in realtà stiamo evitando che reati simili vengano ancora perpetrati. Virtù chiama virtù, umanità chiama umanità.