Ethnologue, una pubblicazione sia cartacea che online, stima la presenza nel mondo di più 7.000 lingue, delineandone il profilo e la collocazione sul planisfero e fornendone una suddivisione per ciascun continente secondo fasce di classificazione: institutional, developing, vigorous, in trouble, dying. Su una popolazione stimata di 7.502.161.744 individui, le living languages utilizzate a oggi sono circa 7.117, quelle in via di estinzione 982. In definitiva, quindi, più di un settimo delle lingue esistenti stanno per scomparire, portando con sé le tracce di una cultura ormai difficile da recuperare.
Daniel Bögre Udell, impegnato attivista per la salvaguardia delle lingue del mondo, si adopera da anni nel sollecitare, attraverso qualsiasi mezzo, l’intera popolazione globale a difendere la propria lingua nativa e a diffonderla con i media, a maggior ragione se questa si dovesse trovare nell’ormai vasto elenco di dying languages. Uno dei canali più efficaci tramite il quale l’attivista ha diffuso il suo messaggio è stato il sito web Technology Entertainment Design (più noto come TED). Durante la conferenza sulla piattaforma, Bögre si è preoccupato di sottolineare: “Languages don’t die naturally, people abandon their mother tongues because they are forced to. Often the pressure is political”. Sotto questo aspetto, infatti, i casi da guardare come esempio sono molti: gli americani con gli indigeni, gli australiani con gli aborigeni e così altri hanno applicato per anni vere e proprie assimilazioni forzate, ossia azioni coatte sistematiche e non, con l’intento di eliminare qualsiasi particolarità linguistica, culturale d religiosa di una comunità in condizioni di inferiorità numerica rispetto al gruppo dominante. Sottile è in questo sento la citazione del generale americano Richard Henry Pratt, il quale nel 1892 affermò che uccidere le culture indigene era l’unica alternativa all’uccidere gli indigeni stessi: la sua frase “Kill the indian but save the man” non potrebbe spiegarlo meglio. Assimilazione come tassello mancante del genocidio.
Anche se ad oggi queste pratiche sono quasi del tutto scomparse, l’alienazione che certi gruppi linguistici subiscono è ancora forte a causa della globalizzazione, che vede l’imporsi delle culture preponderanti – le stesse che applicavano le assimilazioni forzate nel ventesimo secolo – tramite il riconoscimento ufficiale dei governi o il loro impiego nei media (l’ormai enorme, se non fondamentale, fattore di affermazione di una lingua tra la maggioranza della popolazione). Queste premesse minacciano la sopravvivenza di addirittura 3.000 lingue in soli ottant’anni. A tutto ciò però si è opposta, circa dal 1800, una ferrea volontà di alcune lingue minori, tra cui anche alcune discriminate come l’ebraico, di sopravvivere: un processo di recupero delle lingue antiche come simbolo di orgoglio identitario individuale e comunitario. Il risveglio di una lingua che, come una fenice, rinasce dalle proprie ceneri.
Ne esistono centinaia che, proprio come l’ebraico, il cornico, la lingua dei Tunica-Biloxi, dal 2000, grazie al web e ai media, possono permettersi una diffusione mai vista prima e sfruttare i fenomeni virali per espandersi e ottenere il riconoscimento che spetta loro. Molte lingue hanno già avuto questa fortuna: oggi sono insegnate nelle scuole, usate per insegne pubblicitarie locali o in eventi pubblici. Inoltre sono presenti tra le lingue di Wikipedia e si fanno perfino moderne con il loro uso nei meme. Tutto ciò permette una “recognition as a nation” come per tutte le altre