L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro […]
Questo recita la Costituzione italiana, per ricordare ai propri cittadini che uno Stato, soprattutto se democratico, si costruisce con la fatica, con il sudore, “mattone dopo mattone”, come una casa, un palazzo, un’abitazione. Uno Stato che si dichiara Res publica è tale proprio perché è il risultato della volontà di chi sta in basso e non solo sceglie i propri governanti, ma contribuisce, con la propria attività, a forgiare lo Stato di cui è padre e figlio al tempo stesso.
E allora ecco che il Primo Maggio esercita la funzione di ribadire, per chi se lo fosse scordato, che essere cittadino significa anche essere lavoratore e viceversa. Per il cittadino, la Repubblica “riconosce […] il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (Art. 4 Cost.)
Il Primo Maggio però assolve il suo compito fino in fondo solo nel momento in cui ci ricorda che il riconoscimento del lavoro come diritto non è affatto qualcosa di ovvio, ma una conquista raggiunta solo dopo decenni di rivolte, battaglie politiche, lotte sindacali e denunce sociali emerse a partire da metà Ottocento. Durante quest’epoca, infatti, i popoli europei, di fronte ai profondi cambiamenti introdotti dalla Rivoluzione Industriale, iniziarono a prendere coscienza della propria condizione e a battersi caparbiamente per cambiarla.
Questa “presa di coscienza” divenne ben presto un vero e proprio “sentire comune” condiviso dagli strati che più risentivano delle nuove circostanze lavorative, un valore essenziale, una “causa comune” per cui lottare e che si configurò nella celebre “questione sociale”.
La questione sociale nell’arte
A sostegno della questione sociale e della figura del lavoratore non giunsero solo politici o filosofi (si pensi a Marx ed Engels), ma anche artisti e pittori che, come sempre, colsero con estrema sensibilità i temi nodali e i cambiamenti del loro tempo.
L’emergere della questione sociale, l’avvento del proletariato, l’affermazione di un “sentire comune” diffuso furono aspetti che ebbero risvolti cruciali anche sulla sfera artistica (si pensi agli sforzi letterari di autori come Zola, Verga, V. Hugo con il suo Les Misérables…) e che entrarono a pieno regime nella cultura visuale del tempo, divenendo un vero e proprio motivo ricorrente anche nella pittura.
Nello specifico, la corrente artistica (se così la si vuol chiamare) che più di altre trattò con maggiore interesse la figura del lavoratore fu il Realismo, sorto in Francia a metà Ottocento.
Quando però si associa l’arte a questioni di rilevanza sociale, non si può che pensare a un dipinto in particolare: Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo.
Frutto di anni di abbozzi, tentativi e rimaneggiamenti, quest’opera, completata nel 1901, divenne una vera e propria bandiera della questione sociale operaia, quantomeno in Italia.
In una tela di dimensioni parietali (293×545 cm), che rasenta le sembianze di un affresco, il pittore illustra una massa di lavoratori braccianti che avanzano in protesta con la fierezza nello sguardo e la determinazione nel corpo, quasi a voler evadere dalla cornice per invadere lo spazio reale.
Si tratta di uomini e donne, madri e figli, giovani e vecchi che, con le disinvolte movenze di chi è sicuro di sé e sa per cosa lottare, avanzano come una sola unità, come un solo corpo, procedendo all’unisono.
In primo piano, a guidare la folla, si trovano poi due uomini e una donna, la quale con il braccio sinistro sembra sollecitare i manifestanti a procedere (e nella quale gli storici dell’arte hanno individuato il ritratto di Teresa Bidone, moglie del pittore).
Tra chi procede scalzo, rivelando la sua umile posizione, e chi quasi a petto nudo, ciò che emerge è che la scena è dominata dall’assoluta presenza della figura del lavoratore, che, illustrato da Pellizza nelle sue molteplici varianti (vecchio-giovane, uomo-donna ecc.), fa parte di un corpo collettivo.
Il pittore infatti illustra la scena facendo risaltare una chiara dialettica tra il singolo e il gruppo, tra l’individuo e il collettivo: la massa che procede e l’uomo che avanza, il gruppo che si compatta in secondo piano e l’individuo che emerge in primo piano, la veemenza dell’avanzamento del gruppo e lo sguardo fiero, rigido e sicuro dell’uomo, in cui si sintetizza tutto il senso delle scena, a voler ribadire che non vi è individuo senza gruppo e non vi è gruppo senza individuo.
La figura del lavoratore nel Realismo francese
Fu in Francia che nacque e si affermò il Realismo. Pellizza da Volpedo, infatti, ha sicuramente raccolto l’eredità di pittori francesi che, diversi anni prima di lui, già avevano affrontato in termini pittorici le problematiche sociali dell’epoca, descrivendo la realtà umile e operaia della vita quotidiana nella modernità.
Tra i lavori più noti e che meglio descrivono il clima e la realtà del tempo, occorre menzionare il dipinto di Honoré Daumier Il vagone di terza classe, realizzato tra il 1862 e il 1865.
Con l’intenzione di denunciare la situazione di degrado, solitudine ed abbandono delle classi sociali più povere (tipico del Realismo), Daumier raffigura un vagone ferroviario di terza classe, pullulante di figure ammassate e stipate, tra le quali chiaramente si possono distinguere due borghesi, illustrati volutamente come figure appartate e indifferenti alla realtà che li circonda, estranei alla povertà e alla miseria che dominano la scena.
Questa condizione di abbandono e degrado converge poi tutta nelle tre figure in primo piano e in particolare nella signora al centro, il cui volto scavato, l’espressione esausta e lo sguardo perso, fanno risaltare efficacemente il tema della miseria, già sottolineato dalle scelte cromatiche e stilistiche del pittore.
Altra opera emblematica del Realismo francese, anche se meno carica di quell’intenzione di denuncia che caratterizza il Vagone di terza classe, è il dipinto I piallatori di parquet, realizzato nel 1875 da Gustave Caillebotte.
Quasi a voler competere con la fotografia (allora agli albori) Caillebotte non si limita a illustrare uno spaccato di vita quotidiana, ordinaria e semplice, ma lo fa con un realismo tale da dare l’impressione che si tratti, appunto, quasi di una fotografia o di un frame cinematografico: i trucioli appena piallati dal parquet, la luce che entra dalla finestra illuminando una porzione di pavimento, l’inquadratura decentrata, le posture dei piallatori chinati a svolgere il loro lavoro, gli attrezzi appena gettati a terra con un gesto rapido: tutti elementi compositivi che conferiscono all’immagine un carica di realismo che trasforma l’opera d’arte in una “finestra sul mondo”, alla quale lo spettatore si può affacciare per osservare un piccolo frammento della quotidianità di due lavoratori, in questo caso piallatori, dell’Ottocento.
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