Ora il mistero della poesia, ciò che distingue l’utile dall’inutile, ciò che ti consacra intermediario, ciò che ti arruola, non è il fatto di mettere nero su bianco, ma di liberare il nero.
Jean Cocteau (1889-1963) è stato l’artista, l’intellettuale, il maudit che più di ogni altro ha rappresentato la Parigi della prima metà del ‘900 nel suo fascino, nella sua creatività, nel suo genio, ma anche nella sua miseria e nei suoi drammi bellici. «Un ufficio centrale dei fenomeni», un poeta minimo, un raro campione di eclettismo. In qualche modo, un Andy Warhol continentale.
La saggezza dei suoi significati e la leggerezza dei suoi gesti non ricordano i campioni dell’esistenzialismo, i filosofi – primo tra tutti Jean Paul Sartre – che si spartiranno l’altra metà di Parigi; bensì la follia erasmiana, l’onesta ed efficace umiltà di un’interpretazione ad occhi lucidi, di una mimesi dai tratti infantili: «Lì dove un muro obbliga filosofi e saggi a delle soste meticolose, debutta il poeta».
Cocteau ha toccato e contribuito a creare ogni avanguardia, ha espresso i suoi sentimenti con la ragione dello stile e con la grazia del caso. Non un filosofo, non un intellettuale, nemmeno un artista. Jean Cocteau è stato tutto questo e nulla di questo.
Il manifesto della lucidità di questo autore (lucidità degli occhi piangenti, lucidità delle espressioni significanti) è rappresentato da un testo giovanile, un “romanzo”, come tutti esitano a chiamarlo: Il Potomak, scritto tra il 1913 e il 1914, pubblicato nel 1919. Più che di un “romanzo” si tratta di un fenomeno estetico complesso. Vi troviamo narrazioni e rivisitazioni di vita vissuta, scorci biografici, filosofie minimaliste dell’arte, disegni, poesie, scherzi, canzoni, invettive, previsioni, formazione.
La prima impressione suscitata da quest’opera è la sorpresa per l’imprevista possibilità di ridurre ad uno tutto quel fiorire di emozioni, concezioni e metrotopie. Picasso si emozionerà davanti alla sua poetica, la Francia lo accoglierà come maitre à penser, Proust vi riconoscerà chi fu in grado di parlare di Parigi in modo da «evocare le cose che io ho sentito e che son riuscito ad esprimere solo in modo assai pallido». Cocteau fu il pupillo dei nostri campioni, il Novecento dei nostri novecenteschi.
A furia di ferirmi, sdoppiarmi, sottrarmi da giovane a una marea di insidie in cui altri si precipitano, a testa bassa, in età matura, di vivere in balia degli ambienti, di aspettare a volte per delle ore, da solo, in piedi, a luce spenta, dei parlamentari dell’ignoto, eccomi qualcosa di completamente macchina, completamente antenna, completamente Morse. Uno stradivari dei barometri. Un diapason. Un ufficio centrale dei fenomeni.
Questo è uno dei primi passi del Potomak, questa eterna prefazione colma di inizi senza ritorno. Cocteau descrive la sua «violenta reazione contro il pittoresco», il suo battesimo alla spontaneità che lo porterà a cercare nella vita e nell’arte che lo circondano solo l’essenza, non la ridondanza, non il barocco. L’autore rimane affascinato da una poesia di Gertrude Stein, che recita semplicemente: «Cenare, è occidentale». «Un solo epiteto dovrebbe bastare al sogno», commenta Cocteau, che ora è finalmente deciso ad operare il suo percorso di purificazione estetica.
Un fermacarte di cristallo divenne per me l’arte e la comodità […] Per me non era più del semplice cristallo… un cubo… sei facce… un fermacarte… no. Ma un incrocio di infiniti, una giostra di silenzi.
Cocteau non si ritiene molto lontano dalle superstizioni di un pagano, che guarda il cristallo e ascolta le conchiglie per sentire Dio e il mare. L’attacchino divenne un pittore, gli ebbri monosillabi di Alcibiade la filosofia più antica. «Il minimo impulso era sufficiente alla mia pigrizia di ingordo». Una mania di associazioni, richiami, stimoli e collage. Tutto è bastevole del suo amore. Cocteau esercita quello stendhalismo minimale che porta all’«immobilità folle».
Come «un giovane barometro in preda alla tempesta», Cocteau parte per la Prima Guerra Mondiale. L’esperienza sfoltisce l’esaltazione della sua anima e del suo corpo: «L’audacia e la fatica di questo turismo furono una droga contro le riflessioni personali. Constatavo, non giudicavo». Il tutto necessita di una ricetta medica: «Rifuggire i contatti umani per dimenticare la considerazione che ho di loro, perché una lunga abitudine familiare di falsi valori considerati giusti mi lascia avvelenato».
Ma la vaghezza di queste soluzioni, il rococò di questi giri di parole non manca di individuare la risposta, l’unica risposta possibile alla «grande tristezza»:
Il meglio era ancora l’arte, nata convenzionalmente magica fin dagli albori. Il resto andava, veniva, fluttuava, zoppicava, da scoraggiare il pilota.
L’unico oggetto stabile e protagonista del Potomak non può che essere l’arte ed il rapporto dell’autore con essa. Questo “libro” è piuttosto un «grafico della febbre», è il bisogno di scrivere, il bisogno dell’arte, l’emergenza di un palliativo. Non c’è riga, non c’è parola del Potomak che non sia creazione e allo stesso tempo fruizione della bellezza dell’arte.
La scrittura del Potomak nasce dalla «scoperta» di un disegno: gli Eugeni, violente figure spettrali e cannibaliche inserite nel mezzo del libro. Sarebbe impossibile capirne il senso, sarebbe avventato esaurirle in un significato. Le vicende degli Eugeni, la loro struttura, il loro rapporto grottesco con i coniugi Mortimer sono un mistero da guardare senza evidenziare, da cogliere senza mai capire, da rimuginare col diktat di rimanere in silenzio su di essi. Ma è dalla loro «scoperta», dalla loro personificazione a mano libera che nasce il romanzo: «Ho sentito tramite loro il bisogno di scrivere».
L’inaccessibile mistero dello svolgimento dell’opera si prefigura nel mistero della sua genesi, prende l’aspetto di quelle inquietanti figure corvine degli Eugeni, di cui non osiamo dare un’interpretazione (vuoi per demerito ermeneutico, vuoi per prudenza):
Presto per me gli Eugeni divennero per me un banco di prova della sensibilità. Bastava metterli di fronte al paziente e aspettare. Esperienza decisiva. Le persone chiuse al miracolo non mi interessano. Saranno sempre incapaci di amare quello che amo o comunque di amarlo allo stesso modo.
Le mie ricerche per liberarlo dalla sua prigione piatta! Non ricordo di essermi detto: «Sarà divertente disegnare tutte le pose possibili», ma invece: «Bisogna combinare per questo Eugenio un’evasione relativa»
Ma, come già anticipato, il Potomak parla anche d’altro. Anzi, è come se questo “romanzo” fosse l’enciclopedia di una vita – quella di Cocteau – pensata in ogni singolo momento. Egli, tuttavia, non parla del tutto e del particolare con l’aspettativa di dire qualcosa di obiettivo. Egli segue l’istinto, quell’espressione creatrice dello spirito da cui deriva ogni conoscenza e sentimento. Arriva persino a scrivere: «La scienza serve solo a verificare le scoperte dell’istinto». A riprova di ciò viene riportato un dialogo con il grande scienziato Henri Poincaré che, vedendo un giovane Cocteau intimidito da una figura della sua levatura, commentò:
Vorreste sapere a che punto siamo con l’ignoto. Ogni giorno porta un prodigio nei nostri laboratori, ma la responsabilità ci porta al silenzio professionale. Vedo delle cose, vedo delle cose… (E si tolse il binocolo). La fede che ci propinano non può nutrirsi solo di certezza. L’ignoto!
Nella consapevolezza dell’impossibilità di toccare tutti i temi affrontati nel Potomak, non possiamo comunque non analizzare una faccenda centrale: il Potomak.
Cos’è il Potomak?
Anche in questo caso, nello spirito degli Eugeni, non si sa. Potremmo limitarci a descriverlo come un tesoro, un mostro dagli occhi rosa conservato gelosamente dall’autore in un acquario in cantina, nutrito di mandragore e mongolfiere, guardato da un ricco americano sempre pronto a lanciargli guanti bianchi ed errori d’ortografia, sempre accompagnato dal «mormorio infinito di un oceano interiore».
Nulla di esaustivo, niente di diretto, niente di ontologico. Il Potomak è il demone di Cocteau, una fantasia dell’oppio, il custode di un segreto. La sua natura, il suo ruolo nel libro della natura, e quindi nel “libro dell’istinto” – come potremmo definire lo stesso “romanzo” di Cocteau – è frivolo e mal definito, ma allo stesso tempo essenziale.
Il Potomak, come del resto il libro/manifesto che da lui prende il nome, è lo spirito guida dell’opera e del genio di Jean Cocteau, un esteta, un artista, ma soprattutto un poeta che il Novecento ha consacrato tra i grandi ingegni dell’arte europea.
J. Cocteau, Il Potomak, Edizioni Clichy, Firenze, 2016
Immagine 1: scattata dall’autore