Il 22 aprile 2020 viene celebrata, come ogni anno dal 1970, la Giornata Mondiale della Terra, che quindi compie il suo cinquantesimo anniversario. 192 Paesi di tutto il globo hanno contribuito a ricordare (e a ricordarsi) che la conservazione e la salvaguardia delle risorse naturali del pianeta è non più solo un caldo invito, ma un vero e proprio obbligo morale nei confronti di quella che, in fin dei conti, è la casa di tutti. Gaylord Nelson, senatore statunitense, fu colui che fece dell’Earth Day la più grande manifestazione ambientale della Terra. Questa manifestazione, inizialmente un mero movimento universitario, è passata ad essere un evento fondamentale per portare informazione e consapevolezza tra qualsiasi abitante del pianeta, soprattutto riguardo al cambiamento climatico.
Sebbene la parola “moderato” abbia un che di rassicurante, come se fosse un problema sì presente, ma ancora risolvibile, in realtà quando si parla di inquinamento climatico anche le sfumature fanno la differenza. Ciò che oggi sembra moderato, infatti, ha conseguenze indelebili e irreversibili nel futuro prossimo, in quanto la velocità con cui le persone inquinano il mondo è esponenziale. Preoccuparsi oggi di ciò che potrebbe capitare domani è l’unico modo per evitare a se stessi e agli altri di assistere a quella che è una vera e propria condanna autoinflitta. Nonostante a parole sembri una questione semplice e anche piuttosto veloce da gestire, nei fatti è ovviamente tutto molto più complicato. Tralasciando i metodi tecnici che la salvaguardia del pianeta costringerebbe tutti a rivedere per assicurarsi un effettivo miglioramento, quello che blocca la maggior parte delle persone non sono ostacoli propriamente fisici, quanto psicologici.
Lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento dei mari, le inondazioni, il deterioramento della qualità dell’acqua, la carenza di risorse idriche, le ondate di calore, gli incendi, le siccità, l’umidità, le alluvioni, la dispersione di habitat naturali protetti, l’irrigidimento del freddo invernale così come del caldo estivo e tutti gli effetti che le suddette complicazioni comportano in agricoltura, silvicoltura, energia e turismo, ci sembrano tanto vicini, quanto lontani. È come se si fosse consapevoli del problema, ma senza ritenersi direttamente responsabili delle cause di questo né quindi tanto meno coinvolti nella sua risoluzione.
Com’è possibile quindi che la maggior parte delle persone riesca a ignorare, o peggio negare, una situazione così imminente e dagli effetti incontrovertibili?
Michele Wucker, analista politico-economica, ha ideato una metafora che riesce a spiegare la tendenza delle persone a trascurare una minaccia altamente probabile e di grande impatto (“a highly probable, high impact yet neglected threat”). Ha optato per il nome “gray rhino”, ossia rinoceronte grigio, per indicare proprio quella negligenza e noncuranza che risulta più semplice adottare davanti a eventi di statura colossale come il cambiamento climatico. Secondo Wucker, infatti, le persone che adottano tale comportamento sono spinte da tre fattori principali, che esemplifica prendendo spunto da due paesi in cui ha avuto la possibilità di lavorare: Stati Uniti e Cina.
In primo luogo, subentra la sicurezza acquisita dall’individuo consapevole di essere aiutato in caso di fallimento. Ogni qualvolta una persona si trovi di fronte a una decisione rischiosa da prendere, se è stata abituata per cultura, società e stile di vita ad aspettarsi un cosiddetto “salvagente” cui aggrapparsi se le cose dovessero andare male, è automaticamente portata a minimizzare il rischio: questo meccanismo rende la scelta meno responsabile, ma permette talvolta di cogliere buone occasioni. Mettendo a confronto Cina e Stati Uniti, dove i primi confidano notevolmente nel buon senso del governo e si affidano quindi a esso e i secondi sono più individualisti, è chiaro che i cinesi avranno una maggiore propensione a rischiare, a cambiare direzione e a esporsi in nuovi progetti.
Secondariamente, va presa in considerazione la conoscenza che si ha di una certa situazione e la disponibilità dell’individuo a colmare le proprie lacune acquisendo nuove informazioni utili, anche quando questo implica rivedere, o anche rinnegare, quello di cui si è sempre stati convinti. Quest’attitudine all’apprendimento e all’autocorrezione consente di svelare quei blind spots (punti ciechi) che impediscono di risolvere determinate questioni. L’autrice ha infatti verificato che le persone più aperte al cambiamento sono proprio quelle disposte a riconoscere e affrontare i problemi che le circondano – cambiamento climatico compreso – facendo programmi e prendendo di petto tanto le buone occasioni quanto, soprattutto, le cattive. Questo accade perché, appropriandosi di informazioni, si acquisisce maggior potere necessario a reagire a ciò che si teme.
Come ultima causa si individua invece la mancanza di controllo che le persone avvertono nei confronti di questi gray rhinos. Sentirsi indifesi e impotenti verso qualcosa di enorme come il cambiamento climatico aumenta le probabilità di vedere ridotto anche il proprio ruolo all’interno della questione. Si iniziano a incolpare tutti gli altri tranne se stessi.
La soluzione al cambiamento climatico è quindi a portata di mano? Non è detto. Ciò che è certo, però, è che prima ciascun umano si renderà conto di essere vulnerabile, prima si potranno aprire gli occhi e soprattutto si potrà guardare in faccia, con coraggio, quella “bestia” di cui si ha tanta paura, ma da cui finora si è solo tentato di scappare.