Eurobond o sul declino dell’Unione Europea

Il 25 marzo, nel pieno della pandemia, si apre con una lettera di alcuni capi di Stato alla Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea, presieduto da Charles Michel. La lettera, firmata da Conte, Macron e altri sette capi di Stato ha uno scopo ben preciso: proporre uno strumento economico comune per fronteggiare la crisi che l’Unione Europea sta vivendo. Si tratta degli Eurobond.

In particolare, dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia.

La storia degli Eurobond è antica e i primi accenni risalgono al 2003, sotto forma di una proposta dell’allora ministro dell’economia italiano Tremonti. Già a quel tempo le reazioni erano state negative. La situazione si ripeterà quando nel 2010 Juncker e Tremonti porteranno di nuovo questa proposta, meglio delineata, di fronte alla Unione Europea. Il progetto, sostenuto poi anche da Quadrio Curzio e Prodi, cadrà però nel vuoto a causa della crisi economica che colpirà aggressivamente l’Europa.

Cosa sono gli Eurobond? E soprattutto, sono fattibili?

L’idea sarebbe quella di creare un’istituzione europea sovranazionale che possa emettere titoli di debito, portando liquidità (potere di spesa) nelle casse dei Paesi. Si tratterebbe del trasferimento, temporaneo o meno, della politica fiscale a un organo sovranazionale; come la BCE nell’ambito della politica monetaria.

Lo Stato di norma mette in vendita dei titoli di Stato (detti anche titoli di debito o obbligazioni) che un investitore compra a un certo prezzo. Col ricavo della vendita dei titoli, lo Stato può assicurare la spesa pubblica anche in deficit (ovvero quando il PIL, le entrate, non compensa la spesa, le uscite). Ovviamente il compratore, alla scadenza del titolo, dovrà essere risarcito con interessi per il suo “prestito” allo Stato. Interessi che però variano da Stato a Stato in base a criteri di “solidità” economica e politica. Ecco spiegato perché il tasso di interesse in Italia (sui titoli quinquennali) è del circa 1,3% mentre in Germania è a -0,6%.

Gli Eurobond, garantiti da un ente sovranazionale europeo, fonderebbero insieme i tassi dei titoli dei Paesi dell’Eurozona. In questo modo, i tassi di interesse dei Paesi “meno solidi” si abbasserebbero considerevolmente. Tra questi c’è appunto l’Italia che ha un tasso di interesse molto alto rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona. Proprio l’adozione di questi Eurobond permetterebbe all’Italia di ottenere liquidità a un costo minore.

Tuttavia, per una politica fiscale comune serve un’istituzione europea di politica fiscale comune, al momento inesistente. La creazione di un organismo di tale dimensione non è certamente immediata in quanto servono votazioni, accordi tra Paesi e ratifiche varie. Appare dunque difficile, al netto della tensione inter-Unione Europea, che ciò possa accadere durante il decorrere della pandemia attualmente in corso.

Se quindi l’idea è buona, la sua messa in atto sembra lontana e il percorso appare disseminato di ostacoli.

Chi fa parte del Fronte del Nord e perché è così intransigente?

Come ormai noto, il Fronte del Nord è composto dalle due nazioni più austere: Germania e Paesi Bassi. Proprio i governi di questi due Paesi si sono fermamente opposti alla creazione di Eurobond, perlomeno nell’immediato.

Le ragioni sono parecchie e vedono come punto focale il desiderio di conservare un’economia stabile, affidabile e rigorosa. I timori del duo sono quindi dovuti al rischio che l’emissione di tali titoli comporterebbero per le loro casse. Infatti, alcuni Paesi più in difficoltà potrebbero avere bisogno di risorse sproporzionate, finendo per pesare sui contribuenti tedeschi e neerlandesi. Abbastanza chiaramente dunque, questi due Paesi non vogliono rischiare di dover sopperire alle carenze degli altri componenti dell’Eurozona.

Oltre a questo, vi è anche il timore della perdita della “solidità” dei propri titoli di Stato. Infatti, sia quelli tedeschi che quelli neerlandesi sono in negativo, segno di rigore economico. Unendo tutti i titoli di Stato dell’Eurozona, Paesi Bassi e Germania perderebbero questa posizione privilegiata, attraente per gli investitori. Inoltre, dovrebbero pagare gli interessi sui titoli di Stato, cosa che ora non accade

Infine, si parla di risk-sharing politico e non solamente economico. Se infatti l’Italia o qualche altro Paese dovesse abbandonare l’Unione Europea, spetterebbe ai Paesi ancora membri ripagare gli acquirenti degli Eurobond. Questo comporterebbe una richiesta di esborso enorme e sbilanciato da parte dei Paesi rimanenti (con a capo i rigoristi Paesi Bassi e la Germania).

Tutte queste ragioni, sommate alla necessità della creazione di un’istituzione di politica fiscale europea, rendono la faccenda molto spinosa. È necessario allora porsi una domanda più generale sul senso di un Unione Europea così frammentata e incapace di accordarsi. Bisogna procedere verso una fusione completa e la nascita degli Stati Uniti d’Europa? Urge ripensare il progetto? Bisogna cancellarlo?

Quali altre soluzioni ha a disposizione l’Europa?

Fortunatamente, mentre procede la discussione sugli Eurobond, si pensa anche ad altri metodi d’azione. Uno di questi è il celebre MES, ormai nome ricorrente nella politica italiana, che proviene dal lontano 2010. Di questo meccanismo abbiamo già parlato ampiamente qui e qui. Tuttavia, è necessario fare luce sulle nuove dinamiche che porterebbero ad uno uso diverso di quelle risorse già stanziate.

La Commissione Europea ha infatti proposto un utilizzo del MES senza le condizioni di austerity (vedi ristrutturazione del debito) che prima lo caratterizzavano. Le uniche limitazioni riguarderebbero la quantità di liquidità accessibile, si pensa al 2% del PIL e allo scopo a cui saranno destinati questi fondi. L’utilizzo di queste risorse infatti dovrebbe essere diretto solo a coprire le spese sanitarie legate all’emergenza Covid-19. Lo stigma politico in caso di utilizzo del MES sarebbe però evidente in quanto ogni Stato che decide di utilizzarlo deve farne domanda esplicita. È forse anche questa la ragione per cui il governo è piuttosto reticente sull’uso di un tale strumento anche senza le condizionalità legate alla ristrutturazione del debito.

Le altre due forme di aiuto che l’Unione Europea ha attivato sono il progetto SURE e l’intervento della BEI. Il primo progetto prevede un prestito di 100 miliardi (che non vanno divisi per il totale degli abitanti della UE) destinati al sostegno delle misure anti-disoccupazionali come la Cassa Integrazione. L’intervento della BEI (Banca europea degli investimenti) invece è di 25 miliardi di euro. Esso ha lo scopo di fornire alle banche le garanzie per concedere fino a 200 miliardi di prestiti alle piccole imprese.

Ma che Europa vogliamo?

Giunge quindi il momento di dare una conclusione “morale” a questo discorso arido e impersonale. Abbiamo tradito l’idea di Europa! Quell’Europa umana e sociale (non socialista) del “Manifesto di Ventotene” di Spinelli e Rossi. Quasi ottant’anni dopo la sua scrittura ci ritroviamo, nel 2020, al punto di inizio o forse ancora più indietro.

Nel lungimirante Manifesto, si parlava di Stati Uniti d’Europa che avrebbero oltrepassato il conservatorismo reazionario e il nazionalismo sterile del primo ‘900 tendente al conflitto. Eppure, in Italia ed in Europa, anche in questa occasione, cresce la necessità di fomentare sempre di più lo “spirito patriottico”, il conflitto tra le nazioni; insomma coltivare idoli. Ma si badi bene, non è una prerogativa delle destre “reazionarie” bensì di tutta la classe politica, lo dimostrano gli eventi trattati in questo articolo . Come viene detto nel Manifesto di Ventotene infatti,

La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale — e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità — e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale.

Lasciamo dunque che il breve e lungimirante Manifesto di due uomini, che davvero hanno conosciuto il prodotto di rigurgiti nazional-imperialisti, diventi la guida verso una vera Unione Europea.

 

 

 

 

 

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