Affrontare il terrorismo e la radicalizzazione è un onere di tutti gli stati del mondo e la necessità di politiche efficaci si fa più pressante in quelle nazioni che hanno subito attacchi e da cui partono diversi cittadini con l’intento di ingrossare le fila dei gruppi terroristici. Dopo gli attacchi di Al Qaeda e, più recentemente, dell’ISIS, l’Europa e gli Stati membri hanno implementato le proprie misure antiterrorismo, prevedendo diversi meccanismi di difesa e prevenzione, così da poter intervenire nelle più diverse situazioni.
L’Unione Europea ha introdotto una normativa antiterroristica già nel 2002, in seguito ai tragici avvenimenti dell’11 settembre 2001, concentrandosi espressamente sull’attività repressiva: sono stati enucleati nuovi reati connessi con le attività terroristiche, poi recepiti dai diversi stati membri. La normativa europea, però, resta essenzialmente generica e solo in pochi casi riesce ad avere caratteri di precisione e determinatezza, così che, di fatto, si tratta di un apporto che, seppur comunque fondamentale e importante, segna semplicemente la strada che poi ogni paese deve seguire, implementando e personalizzando le misure necessarie.
La mancanza di una strategia unitaria di prevenzione da parte dell’unione Europea è dovuta alla natura stessa dei rapporti tra Unione Europea e fattore religioso, tematica su cui le norme di prevenzione impattano inevitabilmente. In materia di rapporti con le confessioni religiose, infatti, gli Stati non hanno ceduto alcuna sovranità all’Unione, che conseguentemente è obbligata a scegliere una neutralità religiosa che la costringe semplicemente a astenersi dall’intervenire. La politica ecclesiastica – cioè di rapporto con le diverse confessioni religiose e di culto – dell’UE si riduce al solo articolo 17 del TFUE, il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, in cui viene attestata la non ingerenza della stessa nel fattore religioso e si lascia agli stati la facoltà di disciplinare come meglio credono i rapporti con i diversi soggetti confessionali. Non dobbiamo perciò aspettarci trattative, se non solamente buoni rapporti, tra le singole religioni e l’Unione, come invece avviene tra queste e gli stati: conseguentemente, un piano di de-radicalizzazione comune in tutta Europa è irrealizzabile allo stato attuale delle norme.
In seguito però all’azione europea, quasi tutti gli stati hanno cercato di organizzare una propria risposta al fenomeno terroristico: tra i molti programmi attivi e sperimentati risulta particolarmente interessante e particolare il modello inglese, realizzato quando il Regno Unito era ancora parte dell’Unione. Qui, infatti, nel 2003 è nata la strategia Contest che, basandosi su quattro pilastri d’intervento, tenta di ridurre il rischio di attacchi terroristici sul proprio suolo e di combattere il fenomeno in generale, riducendo, se non eliminando, il numero di combattenti foreign fighters britannici. L’aspetto più interessante della strategia Contest, che al suo interno vede anche la previsione di specifiche misure di pronto intervento di polizia e servizi segreti per il monitoraggio e la neutralizzazione dei terroristi, e il programma Prevent, dedicato alla prevenzione.
Secondo il modello inglese l’estremismo viene considerato come l’opposizione verbale o attiva ai valori britannici fondamentali, tra cui democrazia, stato di diritto, rispetto reciproco e tolleranza tra le religioni: la radicalizzazione perciò diventa un problema che necessita di un intervento pubblico quando diventa attiva, cioè in un qualche modo espressa e potenzialmente pericolosa. Si tratta in questo caso, quindi, di radicalizzazione comportamentale, diversamente da quanto viene invece considerato in Francia, cioè la visione che la dottrina indica come radicalizzazione cognitiva, con conseguenti differenze anche nelle modalità di intervento. Come specificamente indicato dal programma, “the aim of the Prevent strategy is to stop people becoming terrorists or supporting terrorism“.
Valutare l’idoneità delle misure politiche prese da un Paese rispetto un determinato problema e quindi porsi quesiti comparativi circa il possibile impiego delle medesime misure nel proprio Paese è però problematico e contraddittorio: non è detto che una politica efficace nel Regno Unito abbia lo stesso esito in Germania o in Italia. Soprattutto quando si tratta di questioni di difficile e complessa natura, quali in questo caso il rapporto tra lo stato laico e le confessioni religiose e la stessa natura dell’ordinamento amministrativo di un Paese, occorre muoversi con cautela e studiando anche le condizioni sociali e l’ambiente in cui determinate misure vengono inserite.
Nello specifico, Italia e Regno Unito hanno, storicamente, un diverso rapporto tra laicità e stato, che di volta in volta può apparire più o meno conveniente a seconda della situazione considerata. Un’eccessiva permissività religiosa rischia di portare alla creazione di gruppi interni alla società non amalgamati con i valori propri della stessa e a una integrazione inefficace, mentre d’altro canto un’affermazione del principio di laicità come avversione per il fenomeno religioso può non propriamente garantire il diritto alla libertà religiosa, che prevede anche il diritto di professare il proprio credo.
Ecco allora che studiare le diverse esperienze statali e sociali, tra cui il modello inglese di de-radicalizzazione del programma Contest, può sicuramente aiutare a comprendere meglio fenomeni complessi e tanto importanti nelle nostre società in mutamento: conoscere gli altri per poter collaborare con efficacia e solidarietà, senza copiare necessariamente ma certo imparando come migliorarci.