Ad oggi, il problema della disuguaglianza retributiva tra uomini e donne è diventato sempre più urgente. A parità di lavoro, nell’arco di un anno, in Italia una dirigente donna guadagna in media 7.700 euro lordi in meno rispetto a un esponente del sesso opposto. La disparità sussiste prevalentemente in settori d’impiego del terziario, quali i servizi finanziari. In aggiunta, pare che presso i privati il cosiddetto “gender gap” sia ancora maggiore. Pare, perché non sempre i dati sono chiari: vi è una scarsa trasparenza rispetto agli stipendi, fatto grave e preoccupante.
Il Global Wage Report 2018/19 dell’International Labour Organization afferma che le donne continuano ad essere pagate circa il 20% in meno rispetto agli uomini. Il problema del gender gap va dunque ben al di là dei confini del nostro paese. Una delle nazioni più interessanti da questo punto di vista, a livello mondiale, è l’Islanda. Un’isola immersa nell’oceano Atlantico settentrionale, con solamente 332.529 abitanti, considerata uno dei paesi dove, in ambito lavorativo, la differenza di genere è maggiormente limitata: l’80% delle donne lavora e circa metà del Parlamento appartiene al genere femminile. In Europa, è la nazione con maggiori diritti e migliori condizioni di lavoro per le donne.
Eppure, anche qui è presente uno scomodo gender gap, tanto sentito da convincere le donne del paese a un’azione decisa per far sentire la propria voce. Il 24 ottobre 1975 vi fu il primo sciopero delle donne, portato avanti dal movimento femminista islandese Red Stockings. Il 1975 era “l’Anno delle donne”, proclamato tale dalle Nazioni Unite: le islandesi decisero dunque di effettuare uno sciopero generale da ogni tipo di lavoro, al fine di ricordare alla società quanto importante fosse il loro contributo. Allora, ancor più di oggi, infatti, il loro valore era costantemente sminuito, con notevoli conseguenze sui salari femminili. Le organizzazioni femminili del paese accolsero la proposta, ma scelsero di chiamare lo sciopero “un giorno libero”, affinché ottenesse più favore nel paese.
Nei giorni precedenti alla protesta sorse una grande agitazione. Lo sciopero del 24 ottobre è considerato una data storica in Islanda, perché vi presero parte il 90% delle donne del paese. Vi erano giovani lavoratrici, operaie e anziane che guardavano soprattutto alle generazioni successive, che scioperavano per la costruzione di una società più equa. A Reykjavik, capitale islandese, la manifestazione contò circa 25.000 donne, su una popolazione totale del paese di 220.000 persone. Le islandesi si astennero anche dal lavoro domestico, dal cucinare, dalla cura dei figli: tutte quelle mansioni tradizionalmente svolte dalle donne, ma sostanzialmente non retribuite. Lo sciopero ebbe un forte impatto sulla società islandese: gli uomini, specialmente i datori di lavoro, dovettero rendersi conto del fondamentale ruolo della manodopera femminile, tanto che quel giorno molte scuole, negozi, fabbriche e altre istituzioni furono costrette a chiudere o lavorare a mezzo regime.
Il ruolo di Vigdís Finnbogadóttir è sicuramente stato fondamentale nella battaglia per la parità di diritti tra uomini e donne. Oggi l’Islanda è uno dei paesi più avanzati, ma, come è già stato detto, la fine del gender gap non è ancora stata raggiunta. Proprio per questo, gli scioperi delle donne proseguono anche in anni recenti. Alle 14.38 del 24 ottobre 2016 migliaia di islandesi hanno smesso di lavorare: un orario ben preciso, che corrisponde alle ore di lavoro effettivamente pagate alle lavoratrici. Oltre le 14.38, infatti, le donne lavorano praticamente gratis. Molte sono scese in piazza per lamentare la disparità salariale, attenuatasi sì nel tempo, ma con eccessiva lentezza. Nel 2018 il governo islandese ha rivisto e migliorato la legge che regolava la parità di stipendio tra uomo e donna, mettendo in vista incongruenze e discriminazioni sul posto di lavoro. In Italia esiste già da tempo una legge simile, eppure siamo ben lontani dalla fine della disuguaglianza salariale: quanto tempo impiegheremo?