Edita per la prima volta nel 1997, la storia di Harry Potter creata da Joanne Rowling è ben presto divenuta fenomeno mondiale e da oltre vent’anni si attesta caposaldo fondamentale del genere fantasy. Una saga trasformatasi in leggenda e approdata ben presto sul grande schermo. Una sfida intrigante che ha coinvolto quattro registi differenti e accompagnato diverse generazioni di giovani appassionati.
Vediamo allora come se la sono cavata i registi dei primi quattro film, tra difficoltà di trasposizione, idee riuscite e grandi difetti.
Chris Columbus
I primi due capitoli della celebre saga, Harry Potter e la pietra filosofale e Harry Potter e la camera dei segreti, sono opera del maestro delle commedie per famiglie. Già noto al grande pubblico per la duologia di Mamma ho perso l’aereo e Mrs Doubtfire, Chris Columbus rappresentava infatti la scelta migliore per film indirizzati ad un target ancora molto giovane. Eccezion fatta per effetti speciali, poco convincenti per stessa ammissione del regista, risulta infatti difficile individuare gravi pecche nel lavoro di Columbus. In parte facilitato dalle dimensioni ancora esigue dei primi due capitoli della saga, il regista ha però dovuto affrontare difficoltà notevoli e scelte di grande responsabilità.
Le origini di Hogwarts
Tra i più grandi meriti di Columbus e staff rientra sicuramente l’accurata selezione del cast. Una selezione supportata da J.K.Rowling in persona e che ha saputo assoldare grandi attori e future promesse. Richard Harris, Alan Rickman e Maggie Smith sono solo alcuni dei grandi nomi scelti per la componente magica adulta. Eppure, anche i provini dei più giovani hanno saputo offrire sorprese, regalando un Golden trio in grado di amalgamarsi sempre più con il passare degli anni e divenuto ormai simbolo immortale della saga.
All’abilità di Chris Columbus dobbiamo anche la creazione di gran parte dell’immaginario del magico mondo della Rowling. Hogwarts, Diagon Alley, Privet Drive, la Tana; ambienti e scenografie iconiche che, tra l’altro, hanno anche facilitato il lavoro dei suoi successori in cabina di regia. Un lavoro troppo spesso dato per scontato, ma che ha saputo dare il via a una delle saghe cinematografiche più amate della storia del cinema.
Regia ed elfi domestici
Pensate per un giovane pubblico, le prime due pellicole sono caratterizzate da toni caldi e un’illuminazione rassicurante, capace di trasmettere la magia del castello di Hogwarts e il clima di aggregazione e amicizia studentesca. Pellicole condite da sequenze intime e toccanti alternate ad altre più cupe e spaventose. Pellicole che hanno saputo dare il giusto spazio anche a personaggi solo in apparenza secondari; in particolare il guardiacaccia Rubeus Hagrid (un magistrale Robbie Coltrane) e Dobby l’elfo domestico, colpevolmente tralasciato nei film successivi. Il tutto accompagnato dalle incantevoli melodie di John Williams, ennesima traccia indelebile di un’opera grondante magia.
Alfonso Cuaròn
Harry Potter e il prigioniero di Azkaban è uno dei film della saga più apprezzati dal pubblico e buona parte del merito va di certo alla regia illuminata di un grande Alfonso Cuaròn. Il regista si trova ad affrontare una fase delicata della crescita dei protagonisti in cui alla luce inizia a mescolarsi l’oscurità e il ritorno del Signore oscuro è ormai alle porte.
Facilitato dalle scelte di cast del predecessore, Cuaròn si trova tuttavia nella difficile condizione di dover sostituire il compianto Richard Harris nel ruolo del preside di Hogwarts. La scelta di Michael Gambon appare però riuscita e offre un Silente leggermente diverso da quello di Harris ma ugualmente in parte, caratterizzato dalla gentile ironia che è marchio di fabbrica del suo omologo letterario. Un grande applauso va anche alla selezione di David Thewlis e Gary Oldman, gli straordinari Professor Lupin e Sirius Black della saga. Due grandi attori e due ruoli cuciti su misura, entrati nel cuore dei fans e mai più dimenticati.
Sirius e i Malandrini
Dal punto di vista del comparto tecnico il lavoro di Alfonso Cuaròn è forse la migliore realizzazione della saga. Accompagnata ancora dalle memorabili musiche di John Williams la scelta dei colori freddi e di toni cupi si mescola ad audaci movimenti di macchina e magistrali piani sequenza. A ciò si aggiunge la maestria dell’autore nella gestione di alcuni stacchi e il delizioso stratagemma del volo di un uccellino, più volte sfruttato per dare una visione completa del castello e di quanto lo circonda.
Cuaròn si rivela ancora una volta grande maestro e autore quasi impeccabile, ma commette l’errore di tralasciare alcuni elementi narrativi di grande importanza. Pur sorvolando sulla sua decisione di snobbare il torneo annuale di Quidditch, è impossibile non imputare al regista l’assoluta noncuranza rivolta all’evasione di Sirius Black e alla storia del cosiddetti Malandrini.
Nulla viene detto su come il famoso prigioniero di Azkaban sia riuscito ad evadere da una prigione considerata inespugnabile e il rapporto di amicizia fra Sirius Black, Remus Lupin, James Potter e Peter Minus viene sfruttato esclusivamente al fine di rivelare il tradimento di quest’ultimo. Taciuta è la spiegazione dei loro soprannomi e, per il pubblico cinematografico, la creazione della Mappa del malandrino rimane un grande e irrisolvibile mistero, così come la forma corporea assunta dal patronus di Harry.
Un nuovo Harry Potter con Mike Newell
Il quarto capitolo della saga apre ufficialmente la stagione delle grandi proteste dei lettori. Che fine ha fatto la Coppa del Mondo di Quidditch? Dov’è finita Winky? Cos’è quella che Silente chiama “Prior incantatio”?Queste sono solo alcune delle domande più pressanti che i fans rivolgono da anni al regista senza trovare pace.
È giusto sottolineare che Mike Newell affronta una sfida senza precedenti. Le difficoltà di gestione e trasposizione crescono insieme alle dimensioni del libro corrispondente, composto da una vera e propria commistione di trame e sottotrame. Un intricato agglomerato di elementi narrativi non semplici da racchiudere in poco più di due ore di pellicola.
Il servo più fedele
L’impressione generale è che Mike Newell abbia avuto eccessiva fretta nella realizzazione di buona parte delle prime sequenze, decidendo di racchiudere in circa quindici minuti un centinaio di pagine. Tuttavia, se l’operazione “anti-Quidditch” era già stata intavolata da Cuaròn e il personaggio di Winky, per quanto affascinante, poteva essere aggirato con facilità, Newell tralascia la sottotrama più importante della storia. La vicenda di Barty Crouch Jr, di come sia sfuggito ad Azkaban, si sia infiltrato nel castello sotto mentite spoglie e ucciso il suo stesso padre, rimane qualcosa di colpevolmente inesplorato. E sul finale, durante l’interrogatorio del falso “Malocchio Moody”, la frase pronunciata da Silente “Mandi un gufo ad Azkaban, si accorgeranno che gli manca un prigioniero” appare francamente imperdonabile e totalmente fuori contesto rispetto alla proverbiale inespugnabilità della ormai celebre prigione.
Un oscuro ritorno
Sebbene macchiata da questo tragico difetto, Harry Potter e il calice di fuoco è comunque un’opera di tutto rispetto, caratterizzata da una buona regia e da alcune sequenze realizzate a regola d’arte. Le tre prove del mitico torneo tre-maghi, forse eccezion fatta per l’ultima, riescono a riecheggiare le epiche descrizioni di J.K Rowling e l’intera sequenza nel cimitero è un piccolo gioiello cinematografico. Il ritorno di Lord Voldemort è reso alla perfezione, la lotta decisiva con Harry è scandita da emozionanti attimi mozzafiato e l’interpretazione di un maestoso Ralph Fiennes rappresentano l’apice dell’intera pellicola.