Il lago d’Aral è tanto esteso che pare un vero e proprio mare. O forse è meglio utilizzare verbi al passato, era tanto esteso. Sì, perché lo spaventoso prosciugamento subito da questo sterminato specchio d’acqua, che nel 1960 aveva un bacino idrografico di 690.000 km2, ha lasciato solamente un’enorme deserto, due piccoli bacini a est e a nord e un disastro ambientale tangibile e incredibile. Eppure, in questo scenario dal gusto apocalittico, nuove politiche stanno cercando di ridare vita a questo lago, un tempo uno dei più estesi del pianeta. E ci sono segnali, se pur timidi, che finalmente ci fanno ben sperare.
Innanzitutto, come è possibile che un bacino idrografico tanto esteso possa rischiare di scomparire nel corso di soli cinquant’anni? La natura da sola non riuscirebbe in questa deplorevole impresa. Infatti il lago, che pure ha sempre sofferto nel corso della sua storia di periodici cambi di volume in quanto strettamente legato alla portata dei suoi immissari principali, cioè l’Amu Darya e il Syr Darya, ha iniziato a svuotarsi in seguito alle politiche sovietiche di sfruttamento della regione. Per poter coltivare intensivamente le aree deserte circostanti e trasformarle così in vasti campi di cotone, riso e cereali, il regime di Mosca decise di deviare il corso dei fiumi tramite una complessa rete di canali. Questi ultimi però, tra cui spicca il canale del Karakum – il più grande canale d’irrigazione al mondo oggi sito in Turkmenistan – sono stati costruiti in maniera sbrigativa, inefficiente e senza alcun riguardo per l’ambiente che stavano per cambiare irrimediabilmente: si stima che solamente il 28% delle strutture era impermeabilizzato, causando così un enorme spreco di risorse che richiedevano, per compensazione, sempre maggiori prelievi dai fiumi.
Già dagli anni Sessanta il lago iniziò a ritirarsi e la situazione non migliorò nemmeno dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Le diverse repubbliche-dittature centro-asiatiche che si affacciano sul lago, infatti, non sono intervenute per impedire il proseguo di questo scempio e, se nella migliore delle ipotesi hanno semplicemente ignorato la situazione disastrosa dell’Aral, nelle peggiori hanno continuato le politiche sovietiche, utilizzando l’acqua per le coltivazioni intensive senza strumenti efficienti. L’aridità e la conseguente evaporazione hanno completato ciò che l’uomo ha ben consapevolmente iniziato.
Per poter arginare questa crisi e favorire un processo inverso che possa portare il lago alle sue antiche sembianze, il solo stato che sta attuando politiche efficienti e condivisibili è il Kazakistan. Con l’aiuto della World Bank, l’azione kazaka si è mossa su diversi piani, in modo da intervenire prontamente. Per prima cosa si è intervenuti nel 2005 costruendo una diga lunga dodici Km sul canale che collega il bacino nord, gestito dal Kazakistan, dal bacino meridionale. In secondo luogo, un lavoro di miglioramento dei canali, resi più efficienti e riducendo le perdite, e una conseguente minor quantità di acqua prelevata dall’affluente. Queste due misure, unite alla sanificazione tanto dell’acqua quanto del terreno, hanno fatto sì che dal 2005 ad oggi siano stati immessi nell’Aral del Nord oltre trenta miliardi di metri cubi di acqua, tanto che negli ultimi anni l’economia della pesca della zona è aumentata considerevolmente e la zona sta assistendo a una ripopolazione che fa ben sperare per il futuro.
In aggiunta a queste politiche moderne che hanno un importante impatto sul bacino dell’Aral, va ricordato che già dagli anni Novanta, per fissare la sabbia al terreno, riducendo così le tempeste tossiche, il servizio forestale kazako iniziò a piantare alberi, in particolare il saxaul, sul fondale del lago. Nel corso degli anni questa riforestazione lenta e silenziosa ha portato dei risultati, rendendo aree tossiche e inospitali ora abitabili e, in qualche modo, produttive. Combattere l’avanzata di un deserto non è un’impresa facile, ma pianta dopo pianta piccoli territori riescono a emergere dalle nubi tossiche.
Quando immaginiamo i cambiamenti ambientali che rendono inospitali per l’uomo e per qualsiasi altra specie animale aree del pianeta non stiamo parlando solo del futuro. Non sono film di Hollywood o libri in stile Philip K. Dick: i cambiamenti sono qui, evidenti in mezzo a noi, alle nostre vite e alle nostre foto. Il quarto lago più grande al mondo è scomparso dalla faccia del Pianeta nel solo arco di cinquant’anni, la stessa velocità con cui un uomo raggiunge la pensione. Cercare di riportare questa disgrazia ambientale sui binari di un ipotetico futuro sostenibile è una missione dura, faticosa e, oggi, dispendiosa, ma solo in questo modo potremo dare un futuro a luoghi, animali e popolazioni a cui questo è stato tolto anni fa, con scelte che antepongono i profitti immediati e pestiferi al futuro godimento perpetuo.