In un precedente articolo abbiamo tracciato un sintetico profilo della storia della letteratura occitanica. Una storia che si sta scrivendo ancora, sebbene non goda della visibilità che merita. Complice di questa sfortuna è la condizione di lingua minoritaria dell’occitano, che rende le pagine dei suoi scrittori contemporanei poco note persino all’interno della Francia stessa.
Scritture in lingua madre
La lingua d’oc, o occitano, è oggi in forte regresso. Com’è avvenuto per i dialetti della nostra penisola, così anch’essa ha subito le pressioni della lingua nazionale, nel suo caso il francese. Si tratta quindi sempre meno della lingua dell’uso. Tuttavia, da qualche decennio l’occitano ha iniziato ad essere lingua scelta. Così, accanto a coloro che l’hanno sempre avuta come lingua madre, vi sono autori che scoprono o ri-scoprono una varietà d’occitano in età adulta. Ci si appropria del suo suono vivace ed evocativo, capace di veicolare in modo forse più verace ciò che si vuole esprimere.
Si tratta di un panorama assai vasto, in cui si sono distinte figure più o meno note. Per la scoperta di questo profondo bacino letterario rimandiamo ai siti di Chambra d’Oc e Institut d’Estudis Occitans. Intanto vi proponiamo, dei tanti, due autori: Robert Lafont e Jean Ganyaire.
Robert Lafont
Robert Lafont (Nîmes 1923 – Firenze 2009) fu poeta, romanziere, autore teatrale e studioso tra i più importanti e che più si sono spesi per la cultura e il linguaggio occitano. Partecipa alla fondazione dello Ieo (Institut d’Estudis Occitans), di cui è stato segretario generale e presidente. All’Università di Montpellier è stato professore di lingua e letteratura d’oc, e nella sua opera compaiono molti studi linguistici sul linguaggio occitano.
Conosce il provenzale fin da bambino, dal parlare dei nonni che lo crescono, e proprio a questa lingua consegna i suoi testi. Le sue opere spaziano dalla nostalgia di una patria interiore all’eroismo, dalle rivoluzioni tradìte alla morte (dell’uomo, delle civiltà, della lingua), passando anche per un voltairiano umorismo filosofico. Traduce, infine, le peregrinazioni di Ulisse nell’Odissea in occitano.
Dalla raccolta poetica Dire (1957) proponiamo tre brani, tradotti dalla studiosa Fausta Garavini, francesista e moglie del poeta stesso.
Cosmogonia Ingenua
Sul sentiero dei desideri
vanno i nostri giorni scalzi
tizzi di fuoco nelle impronte
le mani vuote di speranza.Ma se il tuo sogno si è posato
su una tenera sera di donna
il cielo s’indora del ricordo
vanno i tuoi giorni con le mani piene.Un albero sorveglia sopra il monte
la ronda spenta delle ore
che di tanto in tanto ritorna
e accende una brace nella notte.
Lòng lo camin di desiranças
se’n van nòstri jorns pès descauç
amb de tròç de fuòc sus si piadas
e li mans vuejas d’esperança.Mai se ton sòmi s’es pausat
au vèspre tebe d’una femna
lo cèu s’endaura de remèmbre
se’n van ti jorns amb li mans plenas.Un arbre guèira sus lo pueg
la ronda amoçada dis oras
que çai revèn de quora en quora
dançar un recaliu de nuech.
La lingua d’oc
Dire è il solo potere.
Dire dolce: un ragno
pettina il sole
sul ponte dell’alba.
Dire duro: la montagna
è un frutto amaro
che allega le sorgenti.
Dire largo: il mare
ha posato le mani
sulle spalle del mondo.
Dire amico: il vetrice.
La mia lingua mi sta davanti
nuda come una fanciulla.
Lo sol poder es que de dire.
Dire doç: un’aranha
penchena lo solèu
sus lo pont de l’aubeta.
Dire fèr: la montanha
es una frucha amara
qu’enteriga lei sòrgas.
Dire larg: la marina
a pausat sei doas mans
sus l’esquinau dau mond.
Dire amic: l’amarina.
Ma lenga es davant ieu
Nusa coma una dròlla.
Joan Ganhaire
Con Joan Ganhaire (Jean Ganiayre all’anagrafe, in francese) passiamo invece ai giorni nostri. Nato nel 1941 e vivente, ha lavorato come medico condotto ed ora è in pensione. Il contatto con la gente delle campagne ha ridestato in lui l’interesse per quella lingua che aveva sentito parlare da bambino, dai suoi parenti originari della zona di Limoges. Tra le sue mani diventa un limosino truculento, che ben veicola quell’ossessiva attrazione per la morte, il macabro e le maledizioni presente nei suoi testi.
Della sua vasta produzione, che spazia dai racconti popolari al giallo, proponiamo un estratto dalla raccolta Çò-ditz La Pès-Nuts (Così dice la Piedi-Nudi) tradotto dall’autrice dell’articolo. Il quinto racconto di questa silloge, Lo darrier cebier (L’ultimo stufato) ruota tutto attorno a uno stufato di lepre, la specialità culinaria di una signora di nome Gianna. L’ultimo stufato della sua vita Gianna lo cucina con un infarto in corso, nel tentativo di preparare il pranzo per i suoi ospiti. Questo episodio al limite del surreale, ma narrato in modo tanto verace, si inscrive in una raccolta intrisa di animismo e fantastico.
Lo darrier cebier
Un gallo, puntuale, si mise a cantare nello stesso momento in cui il campanile scoccò le sei. La Gianna si mise in piedi barcollando. Del dolore rimaneva soltanto un fastidio alla bocca dello stomaco e un formicolio nel braccio. Trovò le forze per infilarsi il vestito e le calze nere. […]
Si acquattò vicino al fuoco, talvolta riattizzando le fiamme, talaltre attenuandole. Il dolore era tornato, non tanto violento come al mattino, ma lei lo sentiva nel suo profondo, quasi come una volpe da stanare, tesa e pronta a saltare fuori con gli artigli e i denti in mostra. Ma bisognava alzarsi, per andare a cercare i piattini pieni di quel trito che il naso della Lisotta avrebbe tentato di riconoscere nel venticello di mezzogiorno. Il dolore approfittò dello spostamento per tornare a stringere le spalle e le mascelle.
E ora, c’era qualcosina che le grattava in gola. Trovò forze a sufficienza per sollevare il coperchio e far scendere gli aromi con qualche gesto vivo della mano e le sue dita ne rimasero impregnate di verde. Ancora una tazza di vino rosso in cui qualcosa era rimasto a marinare da due giorni, qualche giro di mestolo, e si lasciò andare nel suo cantuccio. L’odore che veniva su dal pentolone era quello buono, quello che andava riversandosi veloce in strada. Occhi chiusi, coperta di sudore, Gianna non si muoveva più. Il fuoco, ammaestrato, avrebbe portato a termine tutto il suo lavoro.
[…] Quando la Marta arrivò allo scoccare delle dieci per cominciare ad arrangiare la grande tavolata, trovò la Gianna morta davanti al focolare, dove il bel pentolone finiva di lavorare il suo stufato. La povera teneva stretto tra le sue dita un pezzetto di carbone, e i suoi occhi, nei quali il riverbero del fuoco accendeva una fiamma morente, sembravano guardare qualcosa. La Marta obbedì a quello sguardo e non seppe se riderne o piangerne… La Marta non aveva chiamato nessuno e aveva portato a termine da sola tutti i riti funebri.
La Gianna ora era coricata sul vecchio divano – da cui aveva dovuto mandar via il gatto – nei suoi vestiti della domenica, ben pettinata, gli occhi adesso chiusi. L’orologio era stato fermato e lo specchio vicino alla porta coperto da un telo bianco. I commensali arrivarono e presero coscienza nello stesso momento dell’odore meraviglioso e della salma della Gianna sul suo divano, le mani incrociate avvolte in un rosario di legno nero. La Marta, organizzatrice dei funerali, batteva semplicemente con l’indice sulla trave del caminetto, dove, tutto carbonizzato, si poteva leggere qualche parola. «Non lasciatelo raffreddare, mangiatelo entro un’ora, io voglio così».
Chambra d’Oc
Materiale tratto dal corso di Filologia Romanza, prof.ssa M. Longobardi, Università degli studi di Ferrara