Forse non tutti sanno che questa settimana si è svolto il Dantedì, una giornata dedicata a Dante Alighieri alla sua opera più nota, la Divina Commedia. Oggi vogliamo proporvi un’analisi di alcune opere d’arte ispirate proprio all’immaginario dantesco.
Spesso si può cadere nell’errore di pensare l’universo artistico suddiviso in categorie simili a compartimenti stagni. Non sempre però questa rigida classificazione è valida. Anzi, è opportuno tener presente che l’arte non conosce confini o settori rigidi, strutturati e isolati.
Molto spesso infatti si innescano affascinanti crossover che, pur sacrificando una certa specializzazione e una certa “peculiarità”, riprendono tematiche, stili, vicende ed aspetti che non appartengono a una sola area artistica, a una specifica categoria creativa, ma che invece si generano in modo condiviso e trasversale. Questo intreccio (tematico, stilistico, metodologico) tra famiglie artistiche è un aspetto che da tempo esiste nelle arti, in particolare quelle figurative, come la pittura e la scultura.
Prendiamo come esempio l’arte medievale. Un profluvio di icone sacre, di immagini raffiguranti il Cristo, la Madonna, i santi, illustrati su sfondi dorati che rimandano a “spazi che non sono spazi”, introducendo l’icona in una dimensione trascendente, divina.
E questo legame con l’iconografia religiosa e biblica, proseguirà anche nel corso dei secoli successivi e si consoliderà costituendo, sostanzialmente, un leit motiv fondamentale nella tradizione artistica e figurativa occidentale.
Letteratura e arti figurative
Emerge ora un aspetto piuttosto tipico, anzi fondante, delle arti figurative. Un aspetto che caratterizza e costituisce profondamente l’arte pittorica e l’arte scultorea e consiste nel fatto che circa il 90% delle opere prodotte nel corso di tutta la storia dell’arte occidentale siano state concepite in termini di rimandi a figure, vicende e personaggi, già presenti in opere letterarie o in manoscritti religiosi.
Nella maggior parte dei casi le opere figurative devono i temi in esse trattati a vicende bibliche o mitologiche. Si potrebbe dire quindi che si imperniano su temi e racconti di tipo principalmente “religioso”, ma questo presupposto non è sempre valido, o perlomeno non è l’unico. Molto spesso infatti, nel corso della storia dell’arte, è accaduto che pittori e scultori abbiano fatto ricorso a vicende, personaggi o anche ambientazioni, raccontate in opere letterarie più o meno importanti.
L’immaginario della Divina Commedia
Tra le opere letterarie che hanno avuto maggior impatto sull’arte figurativa e che si sono accaparrate un posto d’onore nella produzione di pittori e scultori, spicca sicuramente la Divina Commedia.
Ora vi è da chiedersi perché essa abbia avuto tale influenza sul mondo della pittura, sopratutto su quella dell’Ottocento.
È una domanda nient’affatto banale. Una domanda alla quale si potrebbe rispondere, superficialmente, appellandosi all’ovvia grandezza della Divina Commedia, risolvendo e riducendo quindi la questione alla mera “nomea” dell’opera. Ma è proprio qui che si innesta la vera questione, una questione molto complessa e ardita, che richiederebbe probabilmente ore e ore di discussione e che meriterebbe pagine e pagine di trattazione.
La questione riguarda proprio la grandezza stessa dell’opera. Cos’è che sta alla base della grandezza di quest’opera? O meglio qual è l’aspetto che ha reso la Commedia così importante da essere presa come spunto creativo da molti pittori?
La risposta è da ricercare, sicuramente, nell’immaginario che essa ha saputo creare.
È bene sapere, infatti, che quando si affronta la Divina Commedia non ci si trova davanti ad una semplice opera letteraria o un semplice poema. Ci si trova invece davanti a un’architettura letteraria, un monumento. La Commedia è una cattedrale della letteratura.
Un’architettura in cui Dante ha scelto di racchiudere l’intero universo in 99 canti (più uno introduttivo), suddivisi in 3 sezioni: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ciascuno con i propri personaggi, con le proprie vicende, ma soprattutto ciascuno con i propri colori e suoni.
E allora, a questo punto, non risulta nemmeno tanto difficile comprendere perché essa abbia avuto tanta considerazione presso gli artisti di tutta Europa.
L’Inferno
Sicuramente però la sezione della Divina Commedia che ha avuto maggior interesse è stato l’Inferno, con i suoi dannati, le anime intrappolate dalla loro stesse pene e tutti quei rumori e quei toni cupi che provocano tanto sgomento all’Alighieri fin dal suo primo contatto con questo mondo straniante.
Vi è però da dire che, tra le stagioni artistiche che si sono alternate nel corso della storia dell’arte occidentale, il Romanticismo fu sicuramente la corrente che più prese spunto dall’immaginario dantesco presente nella Commedia.
È quindi l’Ottocento il secolo che più ha “recuperato”, da un punto di vista artistico, la Divina Commedia. Un secolo in cui, proprio grazie alla cultura romantica, si volle riesumare la cultura medievale, con tutta la sua estetica, i sui toni gotici e “decadenti”.
Ne va da sé che, riprendendo una cultura come quella medievale, non si poteva non considerare la Commedia dantesca che, se già aveva affascinato diversi pittori precedenti (qui a lato è possibile osservare un disegno del Botticelli raffigurante le Malebolge), con l’ascesa dei pittori romantici, essa avrebbe trovato il proprio “luogo dell’essere”, proprio in quella cultura che tanto amava il ruderismo, i toni malinconici proponendo un’estetica dell’orrido, del sublime, un’estetica che puntava dunque a far emergere sensazioni forti e sconvolgenti. E
allora quale opera migliore se non la Divina Commedia? E quale ambito migliore dell’Inferno dantesco?
Paolo e Francesca tra Blake, Scheffer e Previati
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.
Tra le scene maggiormente raffigurate e predilette dagli artisti ottocenteschi, vi è sicuramente la celeberrima vicenda di Paolo e Francesca, due personaggi che Dante inserisce nel V Canto, più precisamente nel secondo cerchio dell’Inferno dove, dice l’Alighieri, “tratta de la pena del vizio de la lussuria ne la persona di più famosi gentili uomini.”
Ci si trova quindi nel cerchio dei lussuriosi, coloro che hanno peccato di passioni carnali e la cui punizione, per la legge del contrappasso, consiste nell’essere trasportati perennemente e violentemente da una bufera infernale, siccome in vita si ha preferito la “bufera” della passione amorosa.
Ed ecco dunque William Blake, poeta e pittore inglese, che ne esegue un’illustrazione ponendo in evidenza proprio quella bufera infernale che sferza i dannati e in cui essi sono trasportati. Lo stile da lui scelto per rappresentare questo episodio gli consente di risaltare il carattere “inconsistente” dei non-corpi dei dannati i quali, come si può osservare, sembrano essere “risucchiati” da queste correnti infernali, da questi vortici punitivi. Al tempo stesso l’uso di tonalità fredde e l’impiego di colori poco sgargianti permette a Blake di conferire all’immagine un carattere mistico, onirico, simbolico.
Appare poi evidente che, come si può scorgere in secondo piano osservando il corpo a terra, il momento del Canto dantesco da lui scelto sia quello finale, vale a dire quello in cui Dante, dopo aver ascoltato la storia di Paolo e Francesca, preso dalla compassione e dallo sgomento di ciò che sta vedendo, cade in balia di uno svenimento.
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.E caddi come corpo morto cade.
Vi è poi chi, come il pittore olandese Ary Scheffer, alla dimensione mistica scelta da Blake preferisce invece un approccio più poetico e terreno, ponendo l’accento proprio sull’aspetto carnale e passionale del peccato per il quale i due amanti vengono puniti. E allora ecco che dalla fosca atmosfera spiccano i corpi classicheggianti di Paolo e Francesca che, avvinghiati l’una con l’altro, si lasciano trasportare dalla bufera, mentre Dante e la sua guida, Virgilio, osservano la scena stando nell’ombra, messi chiaramente in secondo piano dal vorticare dei due amanti.
Una bufera amorosa che Scheffer sceglie di illustrare in maniera molto meno violenta e molto più armoniosa, poetica, teatrale rispetto a Blake, tramite quel drappo bianchissimo che sembra tenere “incollati” i due amanti e che, al tempo stesso, accentua ancora di più il contrasto dei chiaro-scuri, attirando inevitabilmente l’occhio dello spettatore.
Si tratta, evidentemente, di una rappresentazione fortemente caratterizzata da una certa teatralità. Una teatralità data dal contrasto chiaroscurante (in cui si può scorgere un certo “caravaggismo”, seppur a due secoli di distanza), nonché dall’espressività accentuata dei volti dei due dannati, che si avvinghiano e vengono trasportati dal vento mortale della passione.
Ma la tradizione iconografica dantesca si è spinta ben oltre l’Ottocento.
È infatti agli inizi del Novecento che si colloca il dipinto di Gaetano Previati, raffigurante proprio i due amanti descritti da Dante nel V Canto. A tal proposito è utile però sottolineare che sono due i dipinti di Previati incentrati sulle figure di Paolo e Francesca. Il primo reca la data 1887 ed è attualmente conservato presso la Pinacoteca Carrara di Bergamo. Si tratta però di una rappresentazione molto impressionista nello stile e molto terrena nella sua connotazione. Si è infatti di fronte al giovane Previati che punta più ad una rappresentazione storica della vicenda e poco visionaria, come sarebbe invece stata la versione del 1909.
Ed è infatti la seconda versione, quella del 1909, sulla quale vale la pena soffermarsi maggiormente. È qui infatti che si può rintracciare il “vero” Gaetano Previati, quel Previati noto ed apprezzato per la sua tendenza a collocare le opere sul confine tra simbolismo e futurismo, a metà strada tra Sartorio e Boccioni.
È significativo infatti notare come il forte carattere futurista dello stile conferisca alla scena un effetto dinamico, attraverso il quale Previati illustra efficacemente proprio quella bufera che punisce i dannati, trasportandoli violentemente in un vortice infernale.
Il pittore sceglie anche, di proposito, l’impiego di tonalità calde per raffigurare i corpi, ma al contempo fredde per il resto della scena. Questo contrasto tra caldo e freddo, unito alla dinamicità dello stile, conferiscono grande espressività alla scena. Una scena nella quale il dramma della vicenda non emerge dalle espressioni dei volti (come si è detto per l’opera di Scheffer), bensì dallo stile stesso con cui l’episodio viene rappresentato nella Divina Commedia.
L’episodio del Conte Ugolino
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsie disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia.
L’altro grande episodio dell’Inferno dantesco, che più è stato illustrato da pittori e scultori di tutta Europa, è quello che vede protagonista, nel Canto XXXIII, il celeberrimo Conte Ugolino della Gherardesca, posto da Dante nel Cerchio infernale dei traditori della patria. La storia narra che Ugolino, nobile pisano passato dalla fazione ghibellina a quella guelfa, dopo una serie di vicissitudini politiche e dopo che i Ghibellini riuscirono ad imporsi nella città di Pisa sotto la guida di Ruggeri degli Ubaldi, fu accusato di tradimento e rinchiuso nella Torre Muda di Pisa assieme ai suoi figli Gaddo e Uguccione e ai nipoti Anselmuccio e Nino.
Ebbene, dopo alcuni mesi di prigionia vennero lasciati morire di fame (in seguito la Muda fu ribattezzata proprio Torre della Fame) e la leggenda narra di una presunta antropofagia di Ugolino che, dopo aver assistito alla lenta morte di fame dei figli e nipoti, avrebbe tentato di mangiare parti dei sui stessi figli e nipoti, per poi morire anch’egli.
Ad ogni modo, leggenda o non, si tratta probabilmente di una delle vicende più macabre e violenti narrate da Dante nella Divina Commedia.
Una vicenda quindi estremamente suggestiva e visionaria che, proprio per la fantasia e l’immaginario “gotico” che Dante ha saputo creare, fu molto considerata da pittori e scultori ottocenteschi, anche dai più celebri e importanti.
E allora ecco che uno dei maggiori esponenti del Romanticismo francese, ovvero Eugène Delacroix (più noto per l’opera La libertà che guida il popolo) realizza un dipinto proprio illustrando la vicenda del Conte Ugolino.
In particolare, in questo caso, si tratta del momento in cui, al quarto giorno di digiuno, uno dei figli (Gaddo), poco prima di morire chiede Padre mio, ché non m’aiuti?, nel disperato e ultimo tentativo di ricevere un aiuto dal padre ormai rassegnato.
La scena, nonostante la crudeltà e la suggestività della vicenda, è narrata dal pittore in modo non violento. Non vi è asprezza o esagerata “violenza” nella narrazione pittorica che Delacroix decide di imbastire. Non vi sono, infatti, toni eccessivamente cupi o raccapriccianti. Ad ogni modo, pur attenuando l’asprezza della vicenda, il pittore riesce comunque a far emergere il dramma della scena.
E il dramma lo si percepisce eccome, anzitutto nei corpi esangui dei due giovani in primo piano, privi di qualsiasi energia o vitalità. La loro carnagione è bianca, pallida, cadaverica, ma sopratutto la loro postura, in particolare in quella del ragazzo al centro, è raffigurata da Delacroix con il petto nudo e scarno e soprattutto con il braccio sinistro che sembra pendere esangue. Un dettaglio molto significativo e che è sempre stato tipico dell’iconografia occidentale, sopratutto in quella cristiana delle deposizioni, nelle quali il braccio pendente di Cristo indicava la resa, la rassegnazione, l’assenza di vita del corpo ormai inanimato (come vuole la tradizione raffaellesca).
Altro elemento che permette a Delacroix di far emerge il dramma della scena è poi la figura dell’ultimo figlio, quello che chiede al padre perché non mi aiuti?, mentre Ugolino, ormai rassegnato, non può che attendere la morte imminente.
È un’opera quindi che, seppur non in modo esplicito, mette in luce potentemente la tragedia della vicenda, una tragedia che Delacroix riesce a far risaltare con la postura e l’atteggiamento dei personaggi raffigurati, dai quali emerge sofferenza e disperazione, ma anche rassegnazione (come si può osservare nella figura del padre, Ugolino, accovacciato)
E come non citare poi un’altro grandissimo scultore dell’Ottocento, che fece della Commedia dantesca una delle principali fonti di ispirazione per le sue opere, ovvero Auguste Rodin, probabilmente il più grande scultore ottocentesco, o perlomeno il più visionario. Ebbene è proprio prendendo ispirazione dall’Inferno dantesco che Rodin realizzò quella che viene definita come la sua opera più importante (sicuramente quella che più lo impegnò), ovvero La porta dell’Inferno, uno dei più grandi risultati mai ottenuti dalla mano di uno scultore.
E anche Rodin, attento e assiduo lettore della Commedia, non poté fare a meno di riprodurre in marmo una vicenda tanto suggestiva e tragica come quella del Conte Ugolino. La realizzò in una scultura a tutto tondo dove, a differenza del dipinto di Delacroix, il dramma della scena risalta profondamente in tutta la sua tragedia.
Ecco che infatti si può osservare il Conte Ugolino che, dopo aver assistito alla morte dei suoi figli, si dirige a gattoni proprio sui loro corpi e, chissà, forse si accinge a cibarsi delle loro carni, avanzando con un volto perito e quasi esangue, che lascia intuire la disperazione e la sofferenza che caricano il momento.
È quindi una rappresentazione, quella di Rodin, per nulla attenuata, ma anzi, al contrario, profondamente impregnata di tutta la crudezza, l’asprezza e la brutalità della scena. Un’opera che traduce in un’immagine tutta la disgrazia e la violenza che Dante, con le sue parole, seppe far emergere così efficacemente.
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
FONTI
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studio personale dell’autore
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