Irruzione

«Sono entrati dalla finestra della camera. Hanno spaccato malamente il vetro, nessuno si è accorto di niente. Hanno portato via l’oro. I gioielli. La scatolina che tenevo nell’armadio. I contanti».

Era entrata in casa, si era chiusa la doppia porta blindata alle spalle, si era tolta il cappotto e le scarpe, ed era andata in camera da letto.

Le era mancato il respiro; i cassetti erano stati sfilati dai mobili e buttati a terra, svuotati, come gli armadi e le librerie. Le coperte del letto erano state tolte e appallottolate. I vestiti buttati in aria.

Si era trovata davanti a un disordine strano, particolare, inquietante. Non era il disordine che lasciano i bambini, gli adolescenti irrequieti o gli anziani sbadati. Non era un disordine personale. Era un disordine che faceva male, perché qualcuno di estraneo aveva messo le mani nelle cose più intime e private, i cassetti della biancheria, le buste delle lettere d’amore, le tasche delle giacche invernali appese nell’armadio.

La sua privacy era stata violata. Qualcosa dentro di lei si era rotto un’altra volta, e non era stato per i soldi. Erano tanti quelli che si erano portati via, ma non era quello il problema.

Il problema era che qualcuno si era introdotto nella sua intimità e le aveva rubato delle cose.

Si era sentita strozzare da una paura atavica e primordiale. Aveva cercato di immaginare come fossero fatti quegli uomini, o quelle donne, che mentre lei non c’era, si erano introdotti in casa sua. Non ci era riuscita. Non era riuscita a dargli un volto, dei vestiti, eppure il loro odore aleggiava ancora nella stanza mentre lei era rimasta immobile sulla soglia della porta.

«Una cosa orribile. Una sensazione impossibile da descrivere» aveva detto a sua madre quando le aveva raccontato quello che era successo davanti ad una tazza di the e un piattino di biscotti.

Poi si era messa a piangere e il the bollente le si era rovesciato sulle mani e sulle ginocchia nude.

 

Non era mai stata gelosa. Si era sempre considerata una ragazza pacata, tranquilla, fedele, trasparente, accondiscendente. I ragazzi, con lei, stavano bene. Li metteva a loro agio. Per un motivo o per l’altro le sue storie finivano, ma lei non ne faceva mai una tragedia.

Poi era arrivato Giorgio. Lui aveva rotto ogni equilibrio, quando lei si era resa conto che non avrebbe potuto vivere senza di lui. Come una rivelazione aveva capito che, mentre degli altri ragazzi aveva sempre potuto fare a meno, perdere Giorgio sarebbe stata la fine.

Perché lui era quello giusto.

E prima di lui non c’era mai stato davvero l’amore.

Accanto a lui aveva scoperto che l’amore e la paura erano inscindibili l’una dall’altra. Le sue notti si erano allungate, le paranoie erano aumentate, le inquietudini a cui non aveva voluto dare, consciamente, un nome, ma che sapeva che stavano scavando nel suo inconscio.

Così era diventata sempre più affettuosa, espansiva e soprattutto, gelosa.

Quando lui tornava tardi la sera. Quando non le rispondeva ai messaggi per qualche ora. Quando non la richiamava. Quando gli vibrava il telefono mentre stavano cenando.

Gli attacchi di ansia avevano iniziato a toglierle il sonno e il respiro.

«Va tutto bene?» le chiedeva a volte Giorgio, quando la vedeva impallidire all’improvviso e barcollare senza un apparente motivo.

Lei annuiva sempre. Si chiudeva in bagno e tirava tre profondi respiri.

Gli aveva dato tutto. Lui era diventata la sua casa, il suo porto sicuro, l’unico posto in cui sapesse stare. L’unico posto in cui si sentiva bene, e male, allo stesso tempo. Lui conosceva il suo corpo. Conosceva i suoi gusti. Conosceva la sua risata e le sue lacrime. Quando facevano l’amore diventavano una cosa sola, un corpo solo.

Lei ingoiava pastiglie di xanax con grandi sorsate d’acqua e aspettava, mentre il sospetto cresceva, il dubbio, la paura, e l’annichilimento dello scoprire che non si fidava di lui.

L’escalation era stata progressiva e rapida.

Una mattina Giorgio era andato a farsi la doccia. Lei aveva guardato dal letto la luce accesa del bagno. Poi il cellulare appoggiato sul comodino aveva vibrato. Si era allungata su un fianco.

 

 

«Posso fermarmi a dormire da te?» aveva chiesto a sua madre quando aveva smesso di piangere.

«Ma certo, tesoro».

Poi sarebbe tornata, ovviamente sarebbe tornata. Sarebbe tornata a dormire nel suo letto. Solo che in quel momento, ogni volta che provava a pensarci, non riusciva a vedere altro che le lenzuola buttate in giro, i cuscini rivoltati, la camicia da notte arrotolata. Qualcosa, di quella scena, l’aveva disturbata profondamente.

Non sapeva come avrebbe fatto a dormire nel letto che qualcuno aveva toccato. Qualcuno di cui non riusciva a immaginare il volto.

Qualcuno che non era lei aveva toccato le sue lenzuola. La sua federa. Il materasso su cui appoggiava, ogni sera, il suo corpo.

Infrazione. Intrusione.

Estranei. Malintenzionati. Violazione.

Rottura.

 

Aveva cercato di non dare peso a quei messaggi che erano comparsi magicamente uno dietro l’altro sullo schermo illuminato del telefono.

Aveva cercato di dare un volto a quella Lucia, ma non ci era riuscita.

Era rimasta paralizzata, il lenzuolo avvolto sotto le braccia, il cuore scoppiato nel petto. Poi aveva ascoltato il rumore dell’acqua che scorreva nella doccia.

Il suo più grande incubo, alla fine, si era realizzato.

Ma lei aveva cercato di fare finta di nulla.

Le era sembrato troppo impossibile per essere vero. Di sicuro aveva frainteso. Di sicuro a sua gelosia patologica l’aveva portata alla follia.

Quando Giorgio era tornato in camera per prendere i vestiti le aveva dato un bacio sulla fronte.

Ma tra le labbra di lui e la pelle si lei si era insinuata quella Lucia senza volto.

«Comunque alla fine l’ho comprato il latte di soia che mi hai consigliato».

«Domani lo provo».

«Spero che mi piaccia».

«Tu hai già fatto colazione?».

 

Alle tre di notte si era ritrovata a fissare il soffitto della sua camera di ragazzina, nel suo letto di adolescente, sotto la coperta con gli orsetti.

Alla fine non aveva più resistito.

«Mi sono entrati i ladri in casa» aveva scritto a Giorgio.

Lui le aveva risposto qualche minuto dopo.

«Cavolo, mi spiace! Stai bene?».

Lei aveva chiuso gli occhi davanti alla luce dello schermo. Aveva cercato di immaginarlo, di richiamare alla mente i dettagli del suo viso, i lineamenti, le espressioni, le smorfie di piacere, di dolore, di rabbia, di gioia.

Aveva provato a immaginarlo a casa, nel letto matrimoniale che divideva con un’altra, con Lucia, che poi aveva scoperto essere una ragazza snella, bionda e con gli occhi castani, o con un’altra.

Dopo quel giorno in cui lei era tornata a casa prima del solito, si erano persi completamente di vista.

Le era sembrato quasi un cliché. Talmente cliché che sul momento le era venuto da ridere. O forse no. Non proprio sul momento. Ma ora sì. Se ci ripensava ora sì, le veniva da ridere, e da piangere, insieme.

«Sto bene. Ma è stato molto strano».

«Ci credo, dev’essere bruttissimo».

Le avevano portato via la sua roba. Avevano rovistato fra la sua roba.

Si rigirò nel letto e lasciò cadere il cellulare a terra, la schermata con le nuvolette verdi della conversazione si spense dopo qualche minuto nel silenzio più totale.

 

Li aveva banalmente trovati a letto insieme. Nel suo letto. Nel loro letto. Di lei e di Giorgio.

Aveva visto la famosa Lucia, che dopo quei messaggi, per settimane intere, le aveva impedito di fare colazione facendole perdere due chili, tirarsi su di scatto e stringersi le lenzuola intorno al seno.

Le sue lenzuola.

Nella sua camera.

Nel suo letto.

Sul suo materasso.

Era rimasta immobile, paralizzata, per una quantità indefinita di tempo.

Poi si era voltata e se n’era andata.

Il tempo che era rimasta lì era bastato per imprimerle nella mente e nell’inconscio l’immagine di una sconosciuta che si prendeva tutto ciò che era suo.

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