Il vandalismo è una compagine di atti fini a se stessi, che violano il limbo sacrale tra creazione e fruizione e indeboliscono l’opera, perché la deprivano della sua bellezza originaria, così come le è stata donata dall’artista.
È il 21 maggio 1972 quando l’australiano Laszlo Toth irrompe nella Basilica di San Pietro al grido di I am Jesus Christ, risen from the death! e prende a martellate la Pietà di Michelangelo. Da quel momento, l’opera sarà protetta da un vetro antiproiettile. Il 14 settembre 1991, Pietro Cannata dà inizio alla sua carriera di vandalo con la scheggiatura a martellate di tre dita del piede del David di Michelangelo. E non sarà la sua prima bravata. Il 19 ottobre 2007, Graziano Cecchini tinge l’acqua della Fontana di Trevi con del colorante rosso. Un anno dopo, 500 palline colorate invadono Piazza di Spagna sotto la sua guida.
Sono solo tre nomi di una compagine più ampia legata al vandalismo contro opere d’arte e l’Italia, culla di un immenso patrimonio artistico, ne è la protagonista. E non è la sola. Ma cosa si intende per vandalismo? Una deturpazione ostentata e priva di ragione contro un oggetto di cui non si comprende la bellezza e l’utilità. Un atto immotivato, orientato solo alla rovina e alla distruzione.
Il termine deriva dal nome della popolazione germanica dei Vandali che, nel V secolo, invase l’Italia. Come altri popoli, era spinta alla distruzione per necessità di conquista ed espansione. L’immotivazione dell’atto compare quindi solo con la Rivoluzione Francese, quando cominciano a predominare il piacere e il gusto per la rovina. In particolare, chi distrugge si muove verso oggetti di cui riconosce la superiorità estetica, contro cui vuole riversare un senso di inferiorità disagiante.
Ci sono poi opere che hanno subìto la violenza di più episodi di vandalismo. L’esempio principe è The night watch (La ronda di notte) di Rembrandt, conservato al Rijksmuseum di Amsterdam. Il dipinto è stato colpito a coltello nel 1915 da un calzolaio disoccupato, graffiato con 13 tagli verticali nel 1975 e imbrattato di acido solforico nel 1990. Uno stesso obiettivo colpito da più carnefici, quindi. Ma accade anche il contrario, cioè che uno stesso vandalo “seriale”, si accanisca su più opere in diversi momenti storici.
Come fa il pratese Pietro Cannata che, nel 1991, all’età di 47 anni, comincia a vandalizzare opere d’arte. Parte dal David delle Gallerie dell’Accademia, poi L’adorazione dei pastori di Michele Di Raffaello delle Colombaie, a Prato, e anche Sentieri Ondulati di Pollock, a Roma, nel 1999. L’ultima bravata nel 2005, contro la tomba di Girolamo Savonarola, imbrattata con lo spray. Per lui, il suo difensore ha stabilito una “semi infermità permanente”, l’incapacità da parte del soggetto di gestirsi autonomamente e dare un senso alle proprie azioni.
Così Cannata è stato riconosciuto come un individuo non pericoloso socialmente, che ha smesso di compiere atti vandalici perché, a suo avviso, non lo ascoltava nessuno. C’è però chi, come il collettivo di performer degli anni Novanta dietro lo pseudonimo di Luther Blissett, ha messo in discussione il valore vandalico di uno degli atti di Cannata: lo sfregio alla tela di Pollock. In una lettera a Repubblica, Luther Blissett ha rivendicato l’artisticità del gesto di Cannata, del suo “segno” tracciato a pennarello tra gli infiniti di Pollock.
La rivendicazione anarchica sta in una considerazione deformata dell’opera d’arte come oggetto relazionale. Qualcosa che si può toccare e manipolare, impedendogli di appassire dietro una teca di vetro. Tale affermazione non tiene conto però di quel limbo inviolabile che separa la creazione dalla fruizione e che permette all’opera di conservare per secoli e millenni quella sacralità artistica che la contraddistingue.
Un oggetto consumato dal tempo e dall’uomo diventa sempre più fragile e perde la sua bellezza originaria, acquistando un altro tipo di bellezza, valida solo però per chi lo possiede. È una bellezza personale, legata ai ricordi, che però non si può applicare a un’opera d’arte, in quanto il suo valore deve essere sempre universale. Per questo è importante conservarne la forma originaria, così come l’ha voluta l’artista.
C’è poi il caso in cui, a una superficie spoglia, viene donata una nuova bellezza artistica. Si tratta della Street Art, un paradosso che media tra il diritto di esprimere la propria creatività e il diritto di proprietà dello spazio utilizzato. Non si parla di vandalismo quando un oggetto neutro rinasce grazie all’arte ed è ai più gradito, ma quando soffre sotto segni che non gli appartengono e che non comunicano nulla alla maggioranza degli spettatori.
Per questo gli atti vandalici, compiuti il più delle volte da volti sconosciuti, sono irrispettosi in quanto fini a sé stessi. Non offrono allo spettatore un dono di cui potrà godere degli anni, ma lo deprivano di questo. Il loro gesto è momentaneo, fulmineo, performativo, come nel caso di Graziano Cecchini, ma che valore aggiunto dà all’arte?