Durante questo periodo di atrofia produttiva, angoscia emotiva ed impasse biologica, non dobbiamo dimenticarci di tutto il resto, di tutto ciò che scuote il sottosuolo, del pericolo che bolle in pentola mentre in superficie dilaga il contagio.
Anche in un periodo di globale debilitazione, il mondo è ancora sfiancato dalle sue “convulsioni” (Bifo), si mantengono ancora in attività quelle forze sotterranee che articolano e disarticolano la vita moderna, che rivoluzionano e conservano, curano o spazzano via. In gioco c’è ancora una volta la sfida di conservare i valori della democrazia e della vita individuale.
E se dovessimo stilare una classifica delle faccende più importanti delle cronache di questo periodo, concederemmo pacificamente il secondo posto a un fatto sì, per l’appunto, secondario, sì meno evidente, ma forse più radicato nello svolgersi della storia – più radicato di un’imprevista ed impensata calamità – e più decisivo nella narrazione delle strutture politiche di un popolo, quello occidentale. Parliamo delle primarie democratiche americane.
Il Covid-19, a onor del vero, non accade del tutto senza arbitrio, perché anche stavolta c’entriamo qualcosa, e molto. Le società occidentali si sono fatte trovare del tutto impreparate, e decenni di privatizzazione sfrontata, smantellamento libidinale delle istituzioni (prime tra tutte quelle sanitarie) e predominio del profitto sulla voce dei diritti, hanno portato al dilagare di una pandemia che non conosce più frontiere, a cui spesso viene gentilmente aperta la porta.
Gli esempi più evidenti di questa inadempienza politica e morale si vedono negli scioperi che fioriscono nelle fabbriche d’Italia da nord a sud, nell’incapacità da parte del governo di attuare misure restrittive anche nei confronti di Confindustria, delle banche e di certi privati facoltosi. Ma anche nella totale inettitudine di Donald Trump nella gestione del contagio negli USA, nell’emergere barocco delle incoerenze di un sistema sanitario costruito da pochi e per pochi.
A risuonare con più rumore da una parte all’altra dell’Atlantico sono forse due maxi-esempi. Da una parte, la morte apparente dell’UE nei confronti dell’Italia nella gestione economica del virus, resa ancora più vergognosa dalle dichiarazioni di Lagarde e della BCE sullo spread, che tanto hanno scomodato il presidente Mattarella. Dall’altra, la mossa “a sorpresa” della Federal Reserve americana, che ha spontaneamente iniettato 1.75 trilioni di dollari nel sistema finanziario in crisi. Per capirci, si tratta di più del costo della piena cancellazione del debito studentesco promossa da Sanders, che lo stesso 1% che maggiormente ha usufruito del regalo trilionario ha bollato come “assolutamente impossibile” e “folle”.
Tutti questi dati saranno meglio compresi nel seguito dell’articolo, in cui si cercherà di capire dove potrà mai andare il mondo a seguito di questi disastri. Nel frattempo, riecheggiano le parole di Martin Luther King:
Socialismo per i ricchi, individualismo per i poveri.
Esiste un tavolo da gioco persino più grande del Coronavirus, un campo di battaglia più comprensivo, storicamente più antico e su cui gli occidentali hanno molto più potere. E questo è la lotta delle minoranze, dei millennials, degli sfruttati e dei precari contro un establishment ormai divenuto insostenibile, retto da una compagine di potere bianca, privilegiata ed alienata nel proprio profitto che per decenni ha espropriato sottobanco la modernità di tutte le sue promesse.
Joe Biden, vice presidente durante i mandati di Obama, è il prodotto più sfacciato di un sistema di ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, l’emblema di quell’immobilismo dem che ha partecipato attivamente alle più grandi tragedie della recente storia americana, dalle guerre ingiuste all’arricchimento dell’anarchia finanziaria. Bernie Sanders, l’esperto senatore del Vermont, rappresenta invece quella moltitudine di richiedenti diritti che sono stati spremuti dai repubblicani e ingannati dai democratici.
La situazione socio-economica e politico-antropologica in cui annaspano gli Stati Uniti del XXI secolo è piena di spregiudicate incoerenze e violente tragedie. Ma forse, più di tutte, la questione delle asimmetrie del sistema fiscale è quella più lampante e rappresentativa. Come dimostra un report di Vox dal titolo “Who pays the lower taxes”, la riscossione delle imposte negli USA è tutto meno che progressiva, favorendo nascostamente le classi alte e soprattutto lo sparuto numero dei miliardari più ricchi.
Per quanto riguarda le imposte locali, federali e statali, il sistema appare effettivamente progressivo, garantendo una percentuale minore di richiesta verso i gruppi sociali più poveri. Anche qui, tuttavia, non mancano delle rumorose spine nel fianco, come la stessa percentuale pagata dall’americano medio e dai 400 cittadini più ricchi, che godono di un ingiustificato sistema a parte rispetto a quello progressivo per il resto della popolazione; o come lo 0% di tasse federali pagato nel 2019 da Amazon, una delle aziende più ricche al mondo.
Ma le tasse sono molte altre: le consumpition taxes, le payroll taxes, le estate taxes, le corporate and property taxes e le income taxes. Ingiustizie a go go. Molto spesso le aziende, che dovrebbero pagare una percentuale delle tasse medico-sanitarie di ogni dipendente (payroll taxes), sottraggono piuttosto la percentuale dallo stipendio del lavoratore, che finisce così per sobbarcarsi l’ammontare totale di tutta la spesa; come se non bastasse, questa tassa è praticamente inesistente per il 10% più ricco della società, oltre ad essere piatta e non progressiva per il 90%. Le consumption taxes, la nostra “IVA” sui prodotti, è dello stesso ammontare per ogni gradino di reddito, generando un sistema non progressivo, non piatto, ma addirittura regressivo.
Insomma, è statisticamente dimostrato che i ricchi pagano meno tasse dei poveri.
Spesso i repubblicani e i democratici centristi controbattono a questa affermazione gridando che “il sistema è progressivo”, ma possono farlo solo parlando delle tasse statali, escludendo l’1% più ricco della società e dimenticandosi di ciò che in larga parte rappresenta l’onere fiscale. A conti fatti, i 400 individui più ricchi d’America pagano 2 o 3 punti percentuali in meno rispetto al 10% dei più poveri.
Con quali strategie rispondono i candidati dem a queste ingiustizie? Con quali argomentazioni si rapportano alle crescenti disuguaglianze e ad un sistema che sembra un parco giochi per i ricchi e uno stagno di sanguisughe per i poveri?
A sinistra tutto ribolle, mentre al centro tutto tace. L’onorevole Bernie Sanders propone manovre rivoluzionarie e sostenibili, stimolando i lavori e gli emarginati a far sentire la propria voce: tassazione progressiva totale e una salata tassa patrimoniale per i miliardari, promozione di un Green New Deal e azzeramento delle emissioni inquinanti, assistenza sanitaria universale a spese dello Stato (come in tutte le democrazie più ricche del mondo), abolizione delle tasse studentesche ed eventuale rimborso di quelle pagate, etc.
E Biden? Come osserva Arun Gupta in un articolo per Jacobin, l’ex vice-Obama sta attuando quella tattica dell’immobilismo tanto cara agli esponenti politici dell’establishment, agli imbonitori di ogni tipo di miliardario e fautori delle relative ingiustizie.
Nel giro di qualche settimana o di qualche mese, gli elettori democratici si pentiranno del fatto che un uomo balbettante, incoerente e subissato di scandali come Biden sia il loro probabile candidato. Donald Trump farà a pezzi Biden raccogliendo critiche e insulti da destra e sinistra. «Sleepy Joe», come è stato soprannominato Biden per i suoi problemi di memoria, sarà preso in giro senza pietà per non essere capace di distinguere la sorella dalla moglie, non sapere a quale carica si è candidato o cosa sia un sito internet.
Joe Biden, che da più di trent’anni cerca, senza successo, di candidarsi come presidente degli Stati Uniti, si è rivelata l’ultima spiaggia per quel Democratic National Committee (Dnc) che vuole che tutto resti così, a vantaggio di Wall Street e a ricasco dei blocchi di periferia. È un politico carismaticamente imbarazzante: non riesce a concludere una frase senza mangiarsi metà delle parole, ha continui vuoti di memoria e confonde sul palco di un comizio la moglie con la sorella. Non fa che autodefinirsi come l’ultimo tacchetto di ciabatta sotto il letto di Obama e chiama “full of sh*t” un operaio che gli sta pacificamente contestando un dato statistico. Di fronte a un individuo del genere, il carisma di Donald Trump ha partita facile.
Persino per quanto riguarda i contenuti politici, che dovrebbero essere il terreno di battaglia per ogni avversario dell’attuale presidente, Sleepy Joe risulta impresentabile. Il muro della vergogna dipinto ancora da Arun Gupta parla da sé:
Amico di senatori segregazionisti, oppositore della segregazione razziale e fautore dell’incarcerazione di massa, Biden non può attaccare Trump sul razzismo o sulla riforma della giustizia criminale. Persecutore di Anita Hill e palpeggiatore di donne, per quanto riguarda il sessismo Biden è facilmente neutralizzabile da Trump. Sostenitore della guerra in Iraq, sarebbe massacrato da Trump, che ha posto fine alla guerra. Difensore di banche e case farmaceutiche, Biden è l’avversario che Trump sognava di avere.
Biden è del resto una storia già vista. Democratico centrista, dal passato costellato di scandali e vergogna, sostenuto da un elettorato benestante che non vuole sconvolgere la pace delle sue finanze. Il candidato, tuttavia, è nient’altro che un paladino del “no”: no alla riforma del sistema sanitario, no a riforme significative sul piano dell’immigrazione…
Presentandosi come negazione di qualsiasi sconvolgimento significativo, come del resto Hillary nel 2016 (solo più debole), Biden è un burattino che si serve della tattica dell’opossum: si finge morto, la soluzione di chi vuole che nulla cambi, con Sanders, e di chi si convince della colpevole illusione di poter sconfiggere Trump con il nulla nulleggiante. Come se la tattica della “terza via” blairiana, del centrismo fiduciario e della moderazione a buon mercato fossero strade politiche ancora percorribili in questi anni.
Ma qui non si tratta solo di sconfiggere un protezionismo nazi-razzista – che, in una lotta diretta contro i centristi di Biden, trionferebbe a mani basse –, ma anche della vergognosa impunità di chi vuole che un sistema ingiusto, elitario ed immorale resti in vigore, di chi accusa Sanders di essere “divisivo” e “utopico”, godendo del male dei più dalla sua posizione di privilegiato sociale.
Se Trump rappresenta l’imperatore Sith e Biden l’inutile Jar Jar Binks, Sanders è l’ultimo Jedi, l’ultima speranza. La storia molto probabilmente finirà male. Come spiega un articolo del New York Times dal titolo What would it take for Bernie Sanders to win, le possibilità di riuscita del senatore del Vermont sono irrisorie. Si tratterebbe di ribaltare completamente gli equilibri impostati nel “Super Tuesday” e nelle votazioni seguenti.
Insomma, chi avrà speranza di veder crollare questa presidenza degli orrori dovrà fare affidamento su Sleepy Joe, l’ennesimo, corrotto baluardo di un sistema barcollante, che sembra dover precipitare dalla parte dell’ancora peggio. Le speranze di chi ha visto nelle idee di Sanders una possibilità di cambiamento sono ridotte a mera allucinazione, ed avremo un altro mandato presidenziale del “leader del mondo libero” in cui le condizioni climatiche diverranno irreparabili, le classi medio-basse e le minoranze continueranno a soffrire della lussuria dei sempre-più-ricchi, il potere costituzionale diventerà sempre più incapace di resistere alle pressioni della Sylicon Valley.
Nel frattempo, ricordiamoci di come Donald Trump stia gestendo la pandemia.
“Who pays the lowest taxes?”, Vox, Youtube, 20/12/2019
A. Gupta, “Biden è l’avversario che Trump sogna di avere”, Jacobin Italia, 11/03/2020