Prendersi cura

«Vengo anche io».

«Non ce n’è bisogno».

«Sì, invece».

Lei prende il soprabito dal gancio dietro alla porta, la stoffa leggera emette un fruscio di ali, rimbocca i bordi dello scampolo di tela che copre la gabbia del canarino per lasciar entrare un po’ di luce tra le sottili sbarre dipinte di bianco, posa una mano sulla spalla di lui e lo guarda negli occhi.

«Vengo anche io».

Insieme escono sul pianerottolo, la porta si chiude con un tonfo e le chiavi tintinnano nella toppa mentre lei da due giri, per sicurezza. Lui aspetta alle sue spalle, con un dito preme il pulsante dell’ascensore, guardandole la nuca illuminata dalla luce del sole che attraversa la tromba delle scale in diagonale, filtrando dalle piccole finestre sempre chiuse e coperte di polvere. 

«Sono giorni ormai che il tuo canarino non mangia e non beve».

«Lo so» dice lei abbassando lo sguardo sulla punta delle scarpe, fissando il pavimento dell’ascensore. Lui non aggiunge nient’altro, restano in silenzio, piano dopo piano, dal quinto al pianterreno. 

 

Lo studio dell’analista è al secondo piano di un elegante palazzo del centro; la facciata grigia, le curve morbide delle decorazioni floreali di pietra e del ferro battuto dei piccoli balconi. 

«Andrà tutto bene. Ti aiuterà. Ti farà bene, vedrai».

Lei gli lascia un bacio sulle labbra, sente un nodo salirle dallo stomaco alla gola, non riesce a dire altro. Lo guarda scomparire dietro l’imponente e pesante portone di legno dopo che ha premuto il bottone dorato sulla plaquette ugualmente dorata, il nome del dottore inciso in eleganti lettere leggermente annerite. 

Il cielo che improvvisamente è diventato grigio, quasi nero, promette un temporale. Lei pensa al suo canarino che non mangia e non beve più, anche lui se n’è accorto, deve essere vero allora. E’ così vecchio ormai, con quelle zampe sottili, delicate, coperte di rughe, che solo a guardarle sembra che vogliano spezzarsi. E le piume, si ricordava delle sue piume, bianche, soffici, bellissime, ora non erano altro che un piccolo mantello consumato, raggrinzito, rigido. Sa che sta per morire. Spera solo che non muoia proprio in quel giorno in cui lei non è a casa, seduta a leggere accanto alla gabbia.

 

Lui racconta all’analista tutto, o quasi. Gli parla di lei, di quello che gli ha fatto, e del male che si sono fatti a vicenda. Non omette le sue colpe, non cerca di passare per la vittima innocente. Eppure sta male, sta male e lei è lì, giù in strada ad aspettarlo. 

«E allora, mi perdoni la domanda, perché sta con questa ragazza, dopo tutto il male che le ha fatto?».

Non ci aveva mai pensato, era una domanda che non si era mai posto, molto semplicemente. Lei era lei. Lei e lui, erano loro. Nonostante tutto, nonostante tutti. 

Nel silenzio dello studio, tra le pareti ricoperte di libri spessi e vecchi, attraverso le finestre socchiuse e le belle tende bianche, rimbomba in lontananza un tuono.

La prima cosa a cui lui pensa, prima ancora di rispondere alla domanda dell’analista, è al canarino di lei, solo, in una gabbia, così vecchio e fragile, il respiro affannato e il cuore che ormai non ce la fa più.

Poi solleva lo sguardo dalle mani che si sta torcendo con forza sulle ginocchia, incontra gli occhi benevoli e sorridenti dell’uomo davanti a lui.

«Perché è lei».

 

La pioggia inizia a cadere all’improvviso, in grandi gocce che atterrano sull’asfalto facendo rumore e in un attimo inizia un vero e proprio acquazzone. 

Lei, al riparo sotto alle alte e annerite volte dei portici, guarda in lontananza i fulmini e conta i secondi che li separano dai tuoni, profondi, roboanti, neri. 

Il suo pensiero corre su, in alto, verso il secondo piano; ha fatto bene ad andare con lui, a insistere. Sa che lui sente che lei è lì per lui. Sa che questo è il minimo che può fare per lui, dopo tutto il male. 

Si stringe il soprabito attorno al corpo, dall’asfalto sale l’odore della pioggia, trasportato dal vento umido.

Chissà se il cuore del suo canarino sta reggendo a quei tuoni sconquassanti che fanno trasalire persino lei. 

 

Quando il portone si apre con uno scatto, lei si volta, staccando bruscamente lo sguardo dalla pioggia che cade. Lo vede venirle in contro, gli occhi leggermente lucidi ma sereni.

«Com’è andata?».

«Bene, tornerò la prossima settimana».

Lei sospira, lui le prende il viso tra le mani costringendola a guardarlo.

«Andrà tutto bene».

I lampi, i fulmini e i tuoni sembrano non voler smettere di cadere. 

«Torniamo a casa. Il tuo canarino sarà spaventato da morire con questi tuoni così forti».

Lei rimane immobile tra le sue braccia, non accenna a muoversi. C’è qualcosa che non va, qualcosa si è rotto, ed entrambi se ne sono accorti. Un rumore interno, sordo, profondo, nero, devastante, coma una crepa che si apre nell’asfalto bagnato. 

“Perché stai ancora con me, dopo quello che ti ho fatto?”.

“Perché sei tu”.

 

Bagnati fradici entrano in casa, i vestiti sgocciolano sul pavimento, il temporale è finito. 

Lei si affretta verso la gabbietta, lui resta in corridoio. Sente lo scatto della porticina di ferro, un leggero tramestio, il fruscio di un tessuto. 

La vede tornare, il volto rigido, le mani tese davanti a sé che stringono il piccolo corpo avvolto nel lembo della sua giacca. 

Non si dicono nulla, si guardano e basta. Lei si avvicina di più a lui, a separarli ora c’è solo il cadavere freddo e leggerissimo del suo canarino. 

È talmente ghiacciato, lo sente anche attraverso la stoffa, che deve essere morto pochi istanti dopo che loro se n’erano andati, probabilmente al tonfo della porta che si chiudeva, prima ancora che iniziasse a tuonare. 

 

«Ho fatto tutto il possibile. Ho fatto tutto quello che potevo».

«Non avresti potuto fare di più».

«No? Davvero? Avrei potuto, avrei potuto fare molto, molto di più».

Lui si volta, si dirige verso la porta, abbassa la maniglia, esce, la porta si richiude. 

Lei rimane immobile, le braccia tese, gli avambracci pallidi sotto la luce grigia che entra dalla finestra, le piume appiccicate le une alle altre, dure, il corpicino rigido, il soprabito sollevato per fare da drappo funebre al cadavere, i capelli sconvolti dalla pioggia, il trucco nero sbavato sotto agli occhi e sulle guance.

Se n’è andato. 


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