Lorella Zanardo, scrittrice e attivista italiana che da una decina di anni si occupa di difendere i diritti delle donne e combattere per l’empowerment femminile, ha realizzato nel 2009 un documentario dal titolo Il corpo delle donne. Esso, tra le altre cose, riesce perfettamente nell’intento di aprire gli occhi non tanto agli uomini spesso accusati di maschilismo, ma alle donne che scelgono volontariamente di ridicolizzare l’immagine del proprio genere, accettando e addirittura assecondando il ruolo di “soprammobili” di decoro e abbellimento che la televisione, soprattutto pubblica, assegna loro.
L’8 marzo, nella giornata internazionale della donna, molte sono le mamme, le nonne e le figlie che, ricevendo un mazzolino giallo di mimosa, si sentono orgogliose nel far parte di quel genere che, a forza di lotte e proteste, guadagna di anno in anno, seppur con fatica, qualche metro nella corsa alla parità dei sessi. Ciò che però sarebbe interessante sapere è cosa ne pensa la metà femminile del mondo dell’immagine che i media come la televisione e internet diffondono e inculcano nella mente di ciascuno, ogni giorno, instancabilmente.
Rispetto a quando il documentario fu realizzato, la percentuale di pubblico femminile – che al tempo era del 60% – si è circa livellata con quella maschile, ma è forse l’unica cosa a essere cambiata: i programmi televisivi che mutano la donna da individuo a prodotto sono innumerevoli e mai in declino; basti vedere il recente successo de La pupa e il secchione e viceversa, o le infinite edizioni di reality show come Il Grande Fratello, L’isola dei famosi o simili, anche offerti nel format di talk show come Uomini e donne.
L’estetica dello stripclub, un leitmotiv erotico: è a questo l’obiettivo a cui molte donne ancora aspirano, a cui sperano di prendere parte per entrare nel sistema. Una sorta di sottomissione desiderata, un’autoriduzione a oggetto sessuale. Come se il prezzo da pagare per diventare potenti fosse mettere in un angolo il proprio orgoglio al fine di adeguarsi agli standard affermati. L’iter tipico è quello che trasforma le donne da promotrici di prodotti a prodotto in sé, che esse possono e vogliono vendere garantendosi successo, notorietà e una qualche forma di potenza che sembra loro uguale a quella maschile. ma pagata con numerose umiliazioni. Le donne che raggiungono la vetta spesso si giudicano con gli occhi di un uomo e si comportano come tale: costringono le altre alle stesse prove degradanti a cui sarebbero costrette da un uomo e sfaldano così ogni valore di alleanza femminile. Inoltre, coloro che non sono corrotte dall’inganno della chirurgia estetica, spesso più adulte, attaccano ferocemente la loro controparte giovanile, forse spinte da invidia e rabbia: ancora una volta vengono meno alla solidarietà tra donne che tanto servirebbe.
Alla fine dei conti, quella femminile si riduce a una “presenza di quantità” e non di qualità. Un feticcio che lotta contro il tempo per aggiudicarsi la maggior inalterabilità possibile, privandosi così di espressività e di vulnerabilità. Anche l’importanza del volto come strumento umano nelle relazioni sociali viene ormai sottovalutata: esso permette il coinvolgimento, la connessione, l’immedesimazione, l’empatia. Un volto inespressivo non può che eliminare qualsiasi forma di sensibilità: ciò che fa è impedire il contatto.
Ed è così che, davanti all’interpretazione teatrale di Kontakthof di Pina Bausch, Zanardo conclude in sottofondo la sua riflessione sul tema del corpo della donna, sottolineando come la strada dell’apparire prevarichi ormai quella dell’essere e chiedendosi se forse questo problema tipicamente femminile non abbia radici più profonde di un semplice desiderio di giovinezza. Che alcune donne non reclamino il diritto all’autenticità perché non hanno ancora raggiunto la consapevolezza di quanto sia necessario? Una cosa è certa, finché continueranno a guardarsi con gli occhi di un uomo, non sapranno mai riconoscere i loro veri bisogni.