Pezzi di identità: quando “La vita gioca con me”

Siamo puzzle. Piccoli pezzi di puzzle incastrati a volte con fatica, a volte con dolore. Piccoli pezzi pronti a distruggersi e ricompattarsi in modo sempre nuovo.
La nostra identità è multiforme, sfaccettata, plasmata dalla vita, dagli eventi e dalle figure che abbiamo accanto. L’esistenza ci sfida, giorno dopo giorno, ci mette alla prova. Il nostro carattere e la nostra storia personale rispondono a questo gioco di forze, subendone in modo attivo gli effetti e le conseguenze, mutando dunque ogni singolo incastro.
Lo sanno bene i protagonisti di “La vita gioca con me”, ultimo e potente romanzo di David Grossman, edito da Mondadori.

Il titolo è un chiaro exemplum di ciò che sarà narrato nella vicenda; il libro è infatti una travagliata storia familiare di generazioni differenti, esposte dalla vita a tanti tiri mancini e tanti schiaffi a cui dover tener testa. Storia non complessa solo da vivere in prima persona per i personaggi, ma dolorosa e tormentata anche per il lettore, che si trova faccia a faccia con tantissime umiliazioni e cadute non facilmente digeribili. Un racconto di amore, di orrore e di duplicità, che colpisce la pancia e a volte lascia confusi, soffocando il respiro.
Tre voci femminili campeggiano in questo reticolo complesso: sono Ghili (nipote e voce narrante), Nina (figlia) e Vera (madre/nonna). Tre vite tortuose e piene di involuzioni, che spesso inficiano il percorso l’una delle altre.

La vita gioca con meNel 1962 saranno proprio le ultime due a diventare il motore di tutto il romanzo: dopo aver vissuto, separate, anni di orrore in Iugoslavia, Vera e sua figlia giungono in Israele. Appaiono diversissime e differentemente provate dai traumi della loro esistenza precedente. Mentre Vera appare più aperta e dolce, Nina sembra quasi un animale selvaggio, i cui comportamenti e le cui azioni non sono facilmente comprensibili. All’arrivo in Israele, le due donne conoscono Tuvia, un vedovo che pur non conquistando totalmente il cuore di Vera, diventerà suo marito. Dal matrimonio si svilupperanno nuovi e tortuosi legami; Tuvia ha un figlio di nome Rafael, anche lui succube di una lunga sofferenza associata alla malattia della madre deceduta. Il ragazzo sarà accolto e accudito da Vera e troverà una luce di speranza negli occhi bestiali della sua sorellastra. Rafael è infatti perdutamente innamorato di Nina, tanto da avere con lei una bambina, la piccola Ghili.

Grossman non racconta nel dettaglio l’infanzia di Ghili, ma è subito chiaro che anche lei, come tutti i membri della sua famiglia, abbia dovuto scontare un dolore sin da piccola. Nina infatti non si cala affatto nel suo ruolo di madre e abbandona sua figlia e Rafael, lasciando non poche domande alla ragazzina. La sua vita scorre lontano da Israele, in un andirivieni tumultuoso e quasi masochista, difficile da inquadrare in prima battuta da parte del lettore.
Sarà solo il novantesimo compleanno di Vera, nel 2008, a far tornare Nina a casa. Non ci si deve comunque far ingannare; la sua scelta non è suggerita dalla mancanza o dal rimorso, ma da un unico fine, preciso e tagliente. Nina vuole infatti far realizzare un documentario sulla vita in Iugoslavia di sua madre. Col supporto di Rafael e Ghili, che già lavorano nell’industria cinematografica, la donna ha il bisogno di ripercorrere un passato dolorosissimo e trovare risposte che possano placare la sofferenza che ha condizionato per decenni le sue scelte di vita. Si sviluppa così la sezione più ampia dell’intero romanzo, costituito da un lungo viaggio compiuto da Vera, Nina, Rafael e Ghili nel passato della capostipite della famiglia.

La vita gioca con meCon lo stile del documentario, in cui il racconto di Vera diventa un’intervista incastonata nella narrazione della nipote, il lettore viene gettato a capofitto in una storia sempre più terribile e difficile da comprendere subito nella sua totalità. Proprio per questo nella sua durezza il romanzo ha quasi un andamento volutamente farraginoso e quasi da centellinare: ciò da un lato sottolinea la difficoltà gestazionale dei ricordi che tornano a galla (in maniera diversa a seconda dei vari punti di vista dei personaggi) e dall’altro la crudezza delle conseguenze di quegli stessi ricordi sull’esistenza dei membri della famiglia.
Non ci sono più bugie, omissioni, giustificazioni. Ognuno ha infatti il suo percorso di lacerazione da dover digerire e superare, ognuno sarà costretto ad aggiungere nuovi pezzi al puzzle costruito fino a poco prima. Sarà così per Vera, che ricorderà la sua infanzia e tutta l’evoluzione del suo innamoramento per l’unico vero amore della sua vita, Miloš, il padre di Nina. Un uomo che dopo il suo suicidio l’ha condannata per troppo amore a un’efferata deportazione in un campo di rieducazione a Goli Otok.
Sarà così per Nina, abbandonata a sei anni da Vera durante la detenzione al campo e talmente sconvolta da questo apparente rifiuto inspiegabile da vagare per tutta la vita alla ricerca dei pezzi mancanti di sé.

“Vorrei che fosse possibile immergermi in una qualche sostanza e venirne fuori pulita, pura, semplice. È di questo che ho nostalgia, di essere una persona semplice, come lo ero un tempo, sai, prima di quello che è successo, prima di quello che è successo a Vera, a Miloš e a me. Dimentica tutto il resto. Tornare per una volta, anche solo per cinque minuti, a quella mattina, a Belgrado […]”

Sarà così per Ghili, vittima ciclicamente di una spirale di abbandoni di cui non ha colpa. Bambina anche lei in attesa da anni di una spiegazione rispetto all’inafferrabilità di una madre assente e lontana. Sfidata dalla vita dal dubbio di diventare a sua volta madre.
Sarà così anche per Rafael, costantemente dedito ad adorare l’anima selvaggia di Nina e pronto a sopportare il peso di un passato fin troppo scomodo anche nel presente. Seppur meno tratteggiato e meno centrale nel romanzo rispetto alle tre voci femminili, quest’uomo porta con sé un meccanismo diadico ancora più potente. Le donne mettono infatti in scena l’antitesi tra amore e abbandono, mentre Rafael è il centro nevralgico di quella tra amore e ossessione.

“Ho giurato che avrei mandato giù tutti i tuoi veleni, finché tu non ti fossi disintossicata, e allora, così pensavo, avremmo potuto cominciare davvero a vivere.”

Si risorge indifesi e scavati nel profondo dalla conclusione della lettura. Ci si chiede quanto dolore si possa essere nascosto nella vita di Eva Nahir, donna reale che ha ispirato con la sua storia il personaggio di Vera. Comunista, finita durante il regime di Tito nel campo rieducativo iugoslavo di Goli Otok, per poi emigrare in un kibbutz d’Israele. Ci si domanda cosa sia quel dolore nello stomaco che piano piano si amplifica pagina dopo pagina. Solo chiudendo il libro si comprende come anche per noi un pezzo di puzzle delle nostre esperienze e del nostro sentire si sia incastrato in un posto nuovo.


 

FONTI

David Grossman, La vita gioca con me, Mondadori, 2019

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